Haiti, pochi posti letto e medici. E gli aiuti arrivano da Cuba e Cina
Si teme la tempesta perfetta Il governo, finora concentrato a investire per lo più nell'apparato repressivo, è intervenuto chiudendo scuole e fabbriche, porti, aeroporti e frontiere e imponendo il coprifuoco dalle otto di sera alle cinque di mattina
Si teme la tempesta perfetta Il governo, finora concentrato a investire per lo più nell'apparato repressivo, è intervenuto chiudendo scuole e fabbriche, porti, aeroporti e frontiere e imponendo il coprifuoco dalle otto di sera alle cinque di mattina
Alla popolazione di Haiti non resta che attendere l’ennesima catastrofe. Dopo il terremoto del 2010 con le sue circa 200mila vittime, il devastante uragano Matthew del 2016 e la tremenda epidemia di colera, dovuta alla negligenza delle truppe di occupazione Onu, che ha ucciso circa 10mila persone contagiandone oltre 800mila, il Covid-19 è solo l’ultima delle tempeste perfette.
Da quando il 19 marzo il presidente Jovenel Moïse, sopravvissuto a mesi di rivolte popolari grazie all’incrollabile appoggio Usa, ha annunciato i primi due casi positivi al virus, quelli di un belga e di un francese, i contagi sono ancora poche decine (di cui più della metà tra i 20 e i 44 anni), ma nessuno dubita che ve ne siano molti di più. E intanto, il 5 aprile, si è registrata la prima vittima: un uomo di 55 anni morto in un ospedale di Port-au-Prince.
Il governo, finora concentrato a investire per lo più nell’apparato repressivo, è intervenuto chiudendo scuole e fabbriche, porti, aeroporti e frontiere e imponendo il coprifuoco dalle otto di sera alle cinque di mattina. È così, attraverso la prevenzione, che si cerca di arginare la pandemia, considerando la manifesta inadeguatezza del sistema sanitario, con ospedali e cliniche per lo più fatiscenti e male equipaggiati e spesso alle prese con gli scioperi del personale medico.
Solo 130, secondo il quotidiano Le Nouvelliste, i posti letto disponibili in terapia intensiva (ma quelli effettivi potrebbero essere molti di meno) e 64 i respiratori (non si sa se tutti funzionanti), mentre, in base ai dati dell’Istituto nazionale di statistica, i medici sarebbero appena 911.
Tutto dipende allora dagli aiuti internazionali, che già incidono per circa due terzi sul budget sanitario, a cominciare da quelli della Cina, che ha già provveduto a rifornire il paese di attrezzature mediche, comprese 140mila mascherine, e di Cuba, che, già molto attiva ad Haiti con le sue équipe sanitarie, ha inviato 348 medici e altri specialisti per combattere il coronavirus.
In un paese in cui 6 su 11 milioni di abitanti si trovano sotto la linea di povertà, anche le misure di prevenzione risultano difficilmente applicabili. Nelle baraccopoli sovraffollate in cui si concentra la maggioranza degli haitiani, infatti, il distanziamento sociale e la quarantena sono un miraggio, soprattutto a fronte della necessità delle persone di sfidare il contagio per guadagnare qualcosa e sfamarsi. E in una realtà in cui solo il 23% della popolazione ha accesso ad acqua e sapone, anche lavarsi spesso le mani è un lusso per pochi.
In questo quadro, in cui l’«immunità di gregge», anziché rappresentare una strategia, rischia di diventare una realtà di fatto, il pericolo di esplosioni di violenza è dietro l’angolo. E a correre i maggiori rischi sono proprio le persone contagiate che, come informa l’operatore di Caritas italiana ad Haiti Alessandro Cadorin, diventano bersaglio di minacce di morte da parte della popolazione.
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