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Haiti, la prima repubblica nera e indipendente della storia moderna

Haiti, la prima repubblica nera e indipendente della storia modernaKettly Noël, «Zombification», 2017

Saggi storici Nel ricostruire il background della Costituzione che nel 1801 aboliva la schiavitù, Jeremy D. Popkin dedica pagine interessanti ai conflitti tra legislazione metropolitana e prassi coloniale: «Haiti», da Einaudi

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 25 ottobre 2020

Dopo l’opera pioneristica dello storico e militante trotzkista Cyril Lionel Robert James, The Black Jacobins del 1938, la storiografia internazionale ha dovuto attendere almeno cinquant’anni prima di mettere la rivoluzione di Haiti al centro dei suoi interessi.

Negli ultimi anni, tuttavia, soprattutto negli Stati Uniti, si sono moltiplicati gli studi che hanno messo l’accento sul contributo dato dagli stessi schiavi a quella rivoluzione dei diritti dell’uomo che, per generazioni, una interessata invenzione della tradizione aveva considerato come frutto dell’occidente civilizzato, bianco e illuminato. Anche nel vecchio Continente, le ricerche hanno (faticosamente) superato i confini metropolitani per contribuire a una nuova lettura degli avvenimenti del 1789 nel tentativo di «provincializzare l’Europa» e inserire gli eventi rivoluzionari in un’ottica globale: dalle monumentali ricerche dello storico francese Olivier Pétré-Grenouilleau a quelle meno conosciute, ma altrettanto imprescindibili, dello storico e giurista della Maine School of Law, Malick W. Ghachem, o all’analisi puntuale dell’accademico marxista inglese Robin Blackburn. Attento a quel «decentramento» dello sguardo di cui parlava già a fine Ottocento William E.B. Du Bois, Jeremy D. Popkin contribuisce con il suo saggio su Haiti Storia di una rivoluzione (traduzione di Alessandro Manna, Einaudi, pp. 256, € 28,00) al filone dello Haitian Turn con una profonda conoscenza delle fonti dell’epoca, sia sul versante coloniale che su quello metropolitano (di prossima pubblicazione presso Einaudi la traduzione di un suo recente volume sulla Rivoluzione francese), ricostruendo gli eventi che condussero Saint-Domingue, la parte ovest dell’Isola di Hispaniola, il cuore di tenebra del colonialismo occidentale, a divenire, nel 1804, la prima repubblica nera indipendente dell’età moderna, assumendo il nome precolombiano di Haiti.

Cinquecentomila schiavi
Dal punto di vista economico era il possedimento più importante e la prima colonia agricola del Nuovo mondo, e alla vigilia della Rivoluzione contava circa 500 mila schiavi, ai quali si affiancavano 30 mila liberi di colore e altrettanti coloni bianchi. Nonostante la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, emanata a Parigi il 26 agosto 1789, prevedesse all’art.1 che «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti», nelle colonie si mantenne l’eccezione; ma il conflitto in atto in Francia e il suo progressivo radicalizzarsi condizionò gli eventi anche sull’altra sponda dell’oceano, tramite la circolazione di uomini e idee che non avrebbero smesso di attraversare il «sudario» dell’Atlantico.

La notte tra il 22 e il 23 agosto 1791 a Saint-Domingue cominciò una sommossa, guidata da schiavi delle piantagioni di canna da zucchero, che presto avrebbe preso connotazioni allarmanti sia per i proprietari terrieri che per gli stessi rivoluzionari francesi, inaspettatamente costretti a fronteggiare la propria (falsa) coscienza. Sebbene Maximilien Robespierre, con il famoso appello Périssent les colonies plutôt qu’un principe! avesse invitato i costituenti ad abolire le discriminazioni ancora vigenti per i sudditi delle colonie, la Francia tardò nel riconoscere i diritti di cittadinanza alle popolazioni d’oltremare.

Uno Spartaco nero
Solo nel febbraio del 1794 la Convenzione nazionale francese (l’assemblea che, attraverso i comitati, di fatto governava la Francia) concesse la liberazione di tutti gli schiavi delle colonie (ad accezione della Martinica, occupata in quel momento dagli inglesi), che raggiungevano la cifra di 800mila persone. La scelta tardiva non fu sufficiente a frenare la rivoluzione a Saint-Domingue – soprattutto per l’opposizione dei coloni e dei proprietari delle piantagioni di canna da zucchero – che comportò l’inedita alleanza tra gli schiavi insorti e i liberi di colore, cui apparteneva François-Dominique Toussaint Louverture. Nato nella colonia da un prigioniero africano il cui padre, a sua volta, era stato comandante dell’esercito del regno di Dahomey, nell’Africa occidentale, Toussaint Louverture aveva ottenuto la libertà nel 1776 e per qualche anno fu anche proprietario di una piccola fattoria e di alcuni schiavi. Era munito di abili capacità politiche e diplomatiche, questo «Spartaco nero», oltre che di una certa spregiudicatezza nel contrarre alleanze e nel tenere insieme gli interessi dei bianchi e degli ex schiavi. Dunque si mise a capo della rivolta, schierandosi in un primo momento con gli spagnoli e, dal 1794, con il governo francese, il cui sostegno «interessato» alla causa abolizionista mirava sia ad arginare la rivoluzione dei neri sia a frenare le ingerenze delle altre potenze coloniali.

Popkin dedica pagine particolarmente interessanti alle dinamiche giuridiche e al loro intrecciarsi con quelle politiche, sottolineando anche il rapporto conflittuale tra legislazione metropolitana e prassi coloniale. Tra i primi approdi della rivolta, la Costituzione aboliva la schiavitù, estendeva i diritti a tutti i cittadini, senza distinzioni basate sul colore della pelle o sul ceto sociale, e proclamava Toussaint Louverture governatore dell’isola a vita: fu promulgata nel 1801, ancora sotto l’egida francese, ma senza previa consultazione del governo di Parigi. Le mutate condizioni politiche nella madrepatria, con l’ascesa inesorabile di Napoleone Bonaparte, portarono tuttavia a una rottura con la rivoluzione haitiana e al tentativo di reintrodurre il potere dei bianchi sull’isola, inaugurando, ci dice Popkin, la fase più violenta dell’intera storia della Rivoluzione haitiana.

All’appuntamento con la conquista
Arrestato e fatto imprigionare da Napoleone, che vedeva in lui un suo temibile alter ego di colore, Toussaint Louverture morì in carcere nel 1803, mentre l’anno precedente la schiavitù era stata reintrodotta nelle altre colonie francesi. L’epopea rivoluzionaria non si interruppe tuttavia con la sua morte, ma proseguì guidata da un altro ex schiavo, Jean-Jacques Dessalines, il quale il 1° gennaio 1804 proclamò l’indipendenza della Repubblica di Haiti, la cui costituzione l’anno successivo avrebbe suggellato il successo proclamando l’abolizione «per sempre» della schiavitù e la fine di ogni distinzione basata sul colore della pelle.

Impreziosito da una dozzina di bellissime immagini, il libro di Popkin accosta alla scrupolosità metodologica una scrittura avvincente e non nasconde, cosa rara tra gli storici, i debiti di riconoscenza verso romanzi e poemi sulle vicende haitiane, contribuendo a iscrivere la rivoluzione di Toussaint-Louverture a quella lotta per la libertà e l’eguaglianza che fu non solo di illuministi radicali e rivoluzionari ma anche di schiavi e neri liberi: «nessuna razza – ha scritto Aimé Césaire – possiede il monopolio della bellezza, dell’intelligenza e della forza, e c’è posto per tutti all’appuntamento con la conquista».

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