Alias Domenica

Guttuso, dall’Inghilterra alla Morte

Guttuso, dall’Inghilterra alla MorteRenato Guttuso, "Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio", part., 1951-’52, Firenze, Gallerie degli Uffizi

John Berger, "Guttuso", Sellerio La monografia del critico inglese (da un manoscritto ritrovato) segnò, nel 1957, il culmine di una ricezione europea del bagherese — sponda Picasso — prima del rientro nel grembo dell’Isola

Pubblicato circa un anno faEdizione del 2 luglio 2023
John Berger in una foto di Libby Hall, 1966
Renato Guttuso in una foto del 1960

«Ma è davvero tanto brutto Guttuso?». Il dubbio veniva a Francesco Arcangeli, sul primo numero di «Proporzioni», nel 1943, dopo che era apparsa la Crocifissione che il pittore bagherese aveva dipinto per Alberto della Ragione. La «radice formale» del pittore era inesorabilmente definita «guasta». Ma il quadro non era solo mediocre dal punto di vista dell’analisi stilistica, era soprattutto una «cattiva azione umana», perché la «deformazione» della realtà, prevista dal prendere in prestito dai fauves e dal cubismo tanto la tinta sgargiante quanto la forma sgretolata, sanciva un fatto di cultura. Significava cioè rifarsi deliberatamente a una linea che includeva Bosch, Grünewald e Van Gogh.
Sebbene le critiche fossero arrivate da più fronti, anche lasciando perdere i malumori apparsi sull’Osservatore romano o le condanne da parte fascista, la Crocifissione dipinta nel ’42 segna comunque uno spartiacque nella ricezione di Guttuso, non fosse altro per il rumore che genera attorno a sé. Proprio da quegli anni, e dalla militanza dell’artista nella Resistenza comunista, parte anche John Berger nel suo Guttuso (Sellerio, pp. 212, euro 14,00), un libro che nasce dal recente ritrovamento di un dattiloscritto che l’autore aveva messo a punto per una pubblicazione edita solamente in tedesco (1957) e in russo (1962). La cura e la traduzione dall’inglese di Maria Nadotti, autrice anche di un lungo saggio in premessa, precisano parecchi elementi di una certa utilità per ristudiare la fortuna critica di Guttuso.
Era quello il primo libro di Berger, sintomatico quindi di un’infatuazione che si respira a più riprese leggendo l’entusiasmo del pittore e critico inglese, che all’epoca aveva trentuno anni e solamente l’anno dopo, nel ’58, avrebbe pubblicato A painter of our times. Gli esordi giustificano quindi certe posizioni che tendono a ingigantire la figura che si ha davanti: «Sono convinto che Renato Guttuso sia il pittore più importante attivo oggi in Europa occidentale», suona l’incipit con una certa sicumera. Berger è consapevole di quanto lo sguardo «nordico» possa generare equivoci, e si preoccupa di ambientare la sua monografia con ampie descrizioni del paesaggio italiano, senza il quale l’opera di Guttuso sarebbe incomprensibile. La luce eroica, i suoi quadri «coloratissimi» e carichi di violenza carnale per lui vanno intesi come rispecchiamenti delle posizioni politiche di un pittore che si era prefissato di incidere, dipingendo, sulle condizioni dei lavoratori italiani. I gesti solenni dei contadini sono quindi esplorati da qualcuno – è questa per Berger la grandezza di Guttuso – che vive insieme a loro, e che sa cosa significa restare a lavorare sotto il sole cocente. Non poteva che mantenere un’impetuosità il linguaggio diretto ed evidente di un artista che puntava a entrare nel cuore di tutti, a differenza dei tanti colleghi che entrano presto nel giro delle mostre e delle gallerie, senza curarsi più di quello che pensa dell’arte l’uomo della strada.
Sono sintomatici anche i dati che Berger porta a giustificazione della sua tesi interpretativa: nel 1949, gli abitanti di Spello replicano con un’infiorata l’Occupazione delle terre incolte in Sicilia, che è un quadro dello stesso anno. Berger è sorpreso della continuità stilistica di Guttuso, sebbene gli sia chiara l’importanza di alcuni scarti decisivi – l’adesione a Corrente nel ’38, l’apparizione di Guernica, l’approdo a un «realismo più esaustivo» fra il ’47 e il ’48. Quest’ultima stagione conosce un salto quando Guttuso si cimenta con il tema della Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, e siamo ormai vicini agli anni cinquanta. La pittura di storia rispondeva pienamente alle esigenze di chi vedeva nell’azione politica il vero nutrimento per l’arte.
Da tutt’altro punto di vista, ma sempre negli stessi anni, Roberto Longhi risarciva la freddezza della stagione trascorsa e accompagnava la prima mostra di Guttuso a New York, che si tiene nell’aprile del ’58, con una lettera poi apparsa su «Paragone». La spiaggia, forse il dipinto di Guttuso che gli garantisce maggiore consenso a queste altezze cronologiche – siamo nel 1956 –, è così paragonata alla Grande Jatte di Seurat, ma è anche un dipinto, per Longhi, che abbandona «i temi più spiegatamente populisti, per quello, direi, interclassista». Berger, che scrive prima di questi giudizi, dedica diverse pagine all’opera, vi vede qualcosa di scatenato e liberatorio, quasi un’apertura rispetto alla civiltà dei consumi: pazienza se la ragazza distesa in spiaggia «forse lavora in un negozio e ha tre paia di scarpe». Così la tentazione di vedere il mondo per com’è non impedisce a Guttuso di essere «un poderoso moralista senza fare ricorso alla morale».
Una nuova linea di demarcazione rispetto ai propri antenati, che Longhi ora identifica in Goya, Géricault, Daumier e Delacroix, poteva anche condurre a qualche ripensamento sull’ombra lunga di Picasso. Anche per Berger lo spagnolo è un mito, ma a riprendere in mano gli Scritti di Picasso pubblicati per Feltrinelli nel ’64, dove sono contenuti anche degli estratti da un diario di Guttuso che comincia dal ’46, c’era ben poco di confortante sul modo di guardare al passato che la generazione dei nati negli anni venti tentava faticosamente di costruirsi negli anni cinquanta. Per Picasso, Monet è più importante di Cézanne, Cranach più di Raffaello, il Giudizio Universale una «decorazion», Rubens «giornalismo», «tutta la pittura italiana» si può gettare via in cambio di Vermeer. Parlando con Kahnweiler, vengono fuori affermazioni che rimarranno sempre a metà fra l’eresia e la storia: «A voi piace acquistare a buon mercato e vendere caro. È per questo che ammirate Caravaggio».
Come poteva reagire, leggendo tutto questo e rimanendo fedele a sé stesso, quel bagherese che iniziava a esser noto in Europa? Misurando queste distanze, anche rispetto a un Douglas Cooper che in Inghilterra continuava a promuovere il malagueño, Guttuso faceva il suo ingresso alla Tate, prima con la partecipazione alla mostra Modern Art from the Estorick Gallery (1956-’57) e poi con l’acquisizione di un dipinto di grandi dimensioni come La discussione nel 1961. Non sarebbe durata a lungo questa stagione di fama inglese per Guttuso, come ricorda Marco Carapezza in una nota a chiusura di libro, eppure le premesse erano state poste con una certa cura, e il libro di Berger rimanda nettamente a quel momento, in cui la partita era ancora tutta aperta.
Forse, per capire quel che è successo dopo, si può ricorrere al catalogo della mostra di Palazzo dei Normanni, a Palermo, del 1971. Il testo di Leonardo Sciascia, La semplificazione delle passioni, è destinato a fissare i caratteri di un’altra linea interpretativa sull’artista. «Guttuso è sempre in crisi», «non ha ironia e non ha gusto», poi, ricorrendo a Dominique Fernandez, «il miglior Guttuso è rimasto un autentico siciliano, cioè un poeta della rassegnazione e della morte». In fin dei conti, era un modo per chiudere il discorso: l’equazione Guttuso = Sicilia serviva a Sciascia per consegnare un circolo di rispondenze interne all’isola, dove contava molto l’essere andati fuori e il ritornare, carichi di cultura internazionale ma senza tutto sommato confrontarsi più. Nel numero monografico della rivista «Galleria», che sempre nel ’71 Sciascia dedica a Guttuso, compare anche Berger, con una poesia che la curatrice ha inserito anche nel volumetto uscito ora.
Ma i giochi erano ormai fatti: Berger era quello di Ways of Seeing e Guttuso consegnato al suo isolamento.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento