Günther Anders, tutto ciò che la condizione di esiliato nega alla vita
Novecento tedesco «L’emigrante», Donzelli
Novecento tedesco «L’emigrante», Donzelli
Costretto a fuggire dalla Germania nazista, Günther Anders (registrato come Günther Siegmund Stern nei registri della comunità ebraica di Breslavia nel 1902) visse a Parigi, poi a New York e Los Angeles una vita da escluso trascinandosi dietro un bagaglio apocalittico come testimonianza di quella crisi del tempo lineare, il tempo del progresso, che Anders aveva declinato fin dalle prime opere.
All’inizio degli anni Sessanta dedicò alla sua esperienza di esilio una riflessione esistenziale e teorica, ora in L’emigrante (con introduzione di Orlando Franceschelli, postfazione di Florian Grosser, traduzione di Elena Sciarra, Donzelli, pp. 90, euro 16,00). Coinvolse nella ricostruzione un «tu» fittizio perché non si leggesse il testo come esasperazione autobiografica, ma in modo tale – afferma – da «indurre i miei contemporanei a conoscere, forse persino ad agire in modo corretto». Riprende frammenti di diario, allude a un dialogo socratico, rievoca le splendide poesie del distacco e articola con rigore e disperazione, in una costellazione testuale spiazzante, questo scritto in cinque sezioni che ruotano attorno ad aspetti diversi dell’essere «un escluso», dalla perdita dell’unità biografica, all’insensatezza del vivere l’esilio o di sfuggirlo cercando nuove radici, alla mancanza del più semplice riconoscimento, fino al cambio forzato della lingua.
Non è solo l’essere strappati all’ambiente familiare, ma la negazione dell’unità della vita che fa sprofondare gli emigranti «senza parole, soli e invisibili» in una insignificanza che cancella il senso di sé insieme alla possibilità di una evoluzione. Tutto ciò che rimane è un punto cieco, una «giostra della tortura» (come scrive a proposito dello scrittore praghese in Kafka pro e contro) che riproduce all’infinito l’esclusione e il tormento di chi, non avendo diritti, si sente comunque in torto, inadeguato, potenzialmente e inevitabilmente vittima.
Per la sua attualità questo breve articolo pubblicato senza troppe ambizioni sulla rivista «Merkur» nel 1962 è diventato libro in Germania e ora in Italia. Lo conferma il curatore Florian Grosser inserendo questa riflessione di Anders tra le «filosofie dell’emigrazione» come testimonianza di condizioni storiche e sociali «altamente rilevanti per il nostro tempo», anche se questo breve e drammatico saggio è soprattutto, al di là di ogni attualizzazione, un lamento sulla «discrepanza» tra le capacità di comprensione e resistenza dell’uomo e il potere dilagante della tecnica e della sua insensatezza.
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