Alias Domenica

Guimard, nient’altro che uno spoglio diagramma della mortalità

Guimard, nient’altro che uno spoglio diagramma della mortalità

Narrativa francesce Alternando la prima e la terza persona come fossero la stessa voce, Le cose della vita esibisce la struttura di un romanzo di formazione à rebours, il cui protagonista ricapitola la propria esistenza poco prima di lasciarla: dall’Orma

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 18 luglio 2021

Esistono scrittori di un solo libro: è il caso di Paul Guimard, nonostante abbia lasciato una fitta bibliografia tra romanzi, saggi e una quantità di lavori giornalistici da editorialista per L’Express e da inviato perché ebbe la passione della vela e intraprese nel ’62 un giro del mondo in barca per conto della R.F.T. Ma Paul Guimard in Francia resta il firmatario di un romanzo breve del ‘67, Les choses de la vie, scritto in un’unica presa di fiato, si direbbe in apnea, e presto divenuto un piccolo oggetto di culto.

Edito da Mondadori già nel ‘68 e in un doppiaggio d’autore, a firma di Oreste del Buono, Le cose della vita (L’Orma, «Kreuzville Aleph», pp. 114, € 15.00) torna adesso nella versione di Eusebio Trabucchi, encomiabile per fedeltà e limpidezza della resa stilistica. Costruito come un romanzo di formazione rovesciato o meglio condotto à rebours nell’imminenza del decesso del protagonista, Le cose della vita alterna la prima e la terza persona come fossero la stessa voce: ora esterna e premeditata, pressoché fenomenologica (si sente qui che Guimard ha almeno sfiorato Robbe-Grillet e la cosiddetta Scuola dello sguardo) ora invece pulsante e del tutto introversa: l’una è la voce che insegue la dinamica di un incidente d’auto con la cadenza tipica degli eventi fatali, l’altra viceversa traghetta a velocità siderale e per un’ultima volta, proprio in articulo mortis, i fatti essenziali (amicizie, affetti, eventi professionali e mondani) della vita del protagonista.

L’incidente e poi
Paul sta andando con la sua fuoriserie ad altissima velocità sulla statale che collega Parigi a Rennes quando, all’altezza di Les Mans, per un banale contrattempo è coinvolto in un incidente, finisce fuori strada e in fin di vita viene trasportato in ospedale. Lì, in una deserta astanteria, nello stesso momento in cui la vita lo abbandona, un sussulto di sopravvivenza libera lo sciame dei ricordi con la sequenza in flashback dei fatti che l’hanno edificata.
Paul è un celebre avvocato di quarant’anni, un raffinato borghese che abita a Parigi nel Quai Voltaire (curiosamente lo stesso domicilio che fu dello sdegnoso e reazionario Henry de Montherlant, scrittore che non potrebbe essere più antipode a Guimard), è stato sposato, ha un figlio che sta per sposarsi a sua volta, e da tempo ha con l’amante Hélène una relazione costellata di alti e bassi, di fughe strategiche e unilaterali, tipiche di uno scapolo ostinato, con repentini riavvicinamenti da parte di lei che vorrebbe sposarlo. Nel momento dell’incidente Pierre ha in tasca una lettera di addio ma si compiace di non averla spedita ripromettendosi di stracciarla. Invano, perché la lettera verrà consegnata, dopo il decesso, alla destinataria con il più atroce dei messaggi postumi. Intorno a Paul, catturati a velocità stenografica si animano i segni di una Francia rurale in via di modernizzazione, nell’autoradio alla classica voce di Charles Trenet succede quella ingenua di Françoise Hardy, l’adolescente dalle lunghe gambe di cerbiatta che canta Tous les garçons et les filles de mon age: intanto, come si trattasse di atomi usciti dall’orbita, dentro di lui va in folle il decorso del romanzo di formazione

La materia prima del personaggio-Paul appartiene allo stesso Guimard: alle sue spalle c’è una adolescenza vissuta tra Parigi e la provincia, dove esplode il primo amore (un contatto ingenuo, infantile, che diviene via via più abrasivo, arrischiato) mentre sopravviene la morte di un amico, lo sfregio che divide la vita tra un prima e il dopo cui immediatamente segue l’esperienza del Maquis e perciò ancora l’incombenza, l’irruzione violenta della morte entro la vita.
Paul non viene caratterizzato psicologicamente ma solo per il tramite delle cose che fa e che pensa, per gli oggetti e le abitudini che ne costellano l’esistenza quotidiana. La sua ritrosia, la vocazione di scapolo, le riserve costanti nei riguardi di Hélène, tradiscono non tanto ostilità quanto una diffidenza primordiale nei confronti degli altri. La sensazione è che Paul diffidi dei legami perché ne ha paura, che ne tema la ambiguità e la sostanziale insincerità a partire, beninteso, da sé stesso: che l’inferno siano gli altri, secondo il celebre aforisma di Jean-Paul Sartre, peraltro un vecchio amico di Guimard, lo ha sempre saputo.

Nemmeno Hélène fa eccezione, lei che nel romanzo agisce sempre fuori campo ed esiste soltanto di riflesso, nell’eco della voce che le presta Paul, una voce lancinante che pare propagarsi e svanire nel gelo dell’obitorio. Paul ha infine una sola certezza, pure se una certezza che il suo stesso racconto vorrebbe negare, ed è la certezza di dover morire. Proprio mentre nel delirio terminale rievoca il passato, infatti, esorcizza intanto al presente gli estremi della condizione umana, l’essere per sempre soli nello stato di finitudine. Le cose della vita è dunque uno spoglio diagramma della mortalità, non ambisce ad essere altro. La voce di Paul, a un certo punto, è costretta a riconoscere: «Chi mi ama continuerà a mangiare anche dopo, e questo dimostra perfettamente quanto la mia importanza sia relativa. La vita finisce solo per me e i rimpianti non pesano poi molto davanti a questa constatazione. Bisogna approcciarsi alla morte con grande umiltà».

Rispetta lo spirito ma non la lettera del romanzo, rendendone ad esempio elusivo il finale, il regista Claude Sautet (un maestro costantemente sottovalutato dai «Cahiers di Cinéma») che gira nel Settanta l’omonimo film, poi uscito in italiano con il titolo L’amante. Sautet vi ha omesso lo sguardo in soggettiva di Guimard e ha integralmente oggettivato il punto di vista approntando una storia a tre dove nel personaggio di Paul, interpretato da un misuratissimo Michel Piccoli, si rispecchiano le figure della ex moglie, Lea Massari, e di Hélène che ha lo sguardo sfolgorante di una Romy Schneider al culmine della sua parabola.

Il tempo non perdona
All’uscita del film (lo attesta la monografia Claude Sautet, a cura di Gabriele Pedullà, Dino Audino editore 1996) così ne scrive l’antagonista acerrima dei «Cahiers», la rivista «Positif»: «L’amante è una grande lezione di cinema ed è pure una grande lezione di morale. Ogni fuga verso l’euforia e il distacco dalla realtà, ci dice Sautet, non può che condurre all’isolamento e alla morte: Pierre cambia per due volte la sua scelta e finisce per perdere il contatto con il tempo. Ma il tempo non perdona». (Un rifacimento cinematografico invece scadente è del ’94, Intersection ovvero Trappola d’amore, per la regìa di Mark Rydell con due decorativi Richard Gere e Sharon Stone). Per parte sua Paul Guimard aveva rubato il titolo del romanzo all’amico Antoine Blondin, poligrafo straordinario, il quale raccontava come Valéry Larbaud, gravemente infermo e ormai quasi incapace di parlare, sciogliesse l’imbarazzo dei suoi ospiti con un … Bonsoir … choses de la vie …

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento