Non solo Guillaume Tell di Gioachino Rossini mancava dal Teatro alla Scala da 26 anni, da quell’ormai lontanissimo allestimento del 1988 con la direzione di Riccardo Muti e la regia di Luca Ronconi, rimasto negli annali per l’uso allora innovativo delle proiezioni in scena. Il fatto è che l’opera non è mai stata presentata al pubblico milanese nella sua versione originale francese e integrale. La presenza sporadica del prolificissimo Rossini nei cartelloni scaligeri è da sempre un fatto, ma qui stiamo parlando del suo opus magnum, l’opera assoluta con la quale, all’età di appena 37 anni, all’apice del suo successo internazionale, il compositore si è congedato dal teatro musicale con un enorme fuoco d’artificio. Mentre mostrava al mondo per l’ultima volta, distillato alla massima perfezione, il suo stile, in cui si fondevano la schiettezza drammaturgica mozartiana e il belcanto italiano, peraltro rinunciando alla prassi invalsa dell’autoimprestito in omaggio al culto nascente dell’originalità del genio, in questo sconfinato proto-peccato di vecchiaia Rossini seminava i germi dell’opera romantica, quella stessa che proclamerà il definitivo superamento del suo stile: il soggetto storico-patriottico (la lotta per l’indipendenza degli svizzeri dagli austriaci nel Trecento), gli elementi di folclore musicale (i richiami ai ranz des vaches), la centralità del coro, molti passaggi della scrittura vocale e le preziosità timbriche della partitura, da cui attingerà a piene mani Giuseppe Verdi (si pensi solo a Il trovatore e Don Carlos).Silvia Giordano modella la scenografia su una metropoli distopica

DUNQUE si presenta come un’occasione ghiottissima lo spettacolo in scena alla Scala fino al 10 aprile, diretto da Michele Mariotti, specialista rossiniano che ha già diretto con grande successo Guillaume Tell al Rossini Opera Festival di Pesaro nel 2013 e che qui, partendo dall’edizione critica pubblicata da Elizabeth Bartlet nel 1992, ci presenta la partitura originale quasi nella sua interezza (sono omessi solo un paio di ballabili e l’aria di Jemmy). La sua conoscenza del respiro rossiniano, che alterna momenti frenetici e oasi di pace, ritmi indiavolati e melodie estatiche, lascia a tratti senza parole e il pubblico risponde con frequenti piccole ovazioni, prima di quella lunghissima finale, a esprimere una gratitudine sincera per avere restituito Rossini alla Scala e Guillaume Tell al mondo nella sua forma più pura. La precisione matematica del contrappunto, la ricerca timbrica di inaudita pastosità, le arcate melodiche dilatatissime, le dinamiche mutevolissime: tutto sembra fondersi sotto la bacchetta di Mariotti, che trasforma le cinque ore dello spettacolo in una pulsazione musicale dalla quale non si vorrebbe uscire.

LA COMPAGNIA di canto è alla sua altezza: grazie a una voce che nella parte acuta della tessitura si sfoga con pienezza stupefacente, Dmitry Korchak scolpisce un Arnold destinato a fare scuola; intenso e potente il Tell di Michele Pertusi; gradevole la Mathilde di Salome Jicia, a meno di tanti acuti metallici. La regia di Chiara Muti, con le scene di Alessandro Camera, i costumi di Ursula Patzak, le luci di Vincent Longuemare e la coreografia di Silvia Giordano, trasforma i paesaggi montani e lacustri della svizzera in una metropoli distopica modellata su Metropolis di Lang e arricchita di suggestioni dalla pittura onirica di William Blake. L’operazione fa mormorare il pubblico, ma la rilettura claustrofobica non confligge con la drammaturgia del libretto e si sviluppa coerentemente fino al finale che, sull’inno alla libertà, spalanca dietro la metropoli monocroma un paesaggio naturale pieno di colori.