Guido Harari, in piena luce
Intervista Cinquant'anni di foto e mostre, «Remain in light»
Intervista Cinquant'anni di foto e mostre, «Remain in light»
Esce sorridente dalla «Caverna Magica», così chiama il set fotografico ricavato al secondo piano della Mole Vanvitelliana, ad Ancona, dedicato a chi desidera un ritratto d’autore. Guido Harari ha capelli bianchi lunghi e folti, legati a coda, gli occhialetti rotondi con le lenti azzurre, è un bell’uomo classe ‘52, mi stringe energicamente la mano e si scusa per il ritardo, mi fa accomodare e un secondo dopo esce di nuovo e chiede di aver pazienza a coloro che hanno prenotato un suo scatto. Il giorno prima è passata Liliana Segre.
Il problema è che a Guido Harari si potrebbero fare milioni di domande, troppi sono i personaggi che ha incontrato e su cui ha aneddoti, il punto non è mai l’attimo dello scatto ma la narrazione, ciò che viene prima, quello che ci si aspetta da lui e dal soggetto, ciò che si riesce a percepire solo dopo che la pellicola è stata sviluppata. Nella mostra alla Mole ci sono più di 300 foto divise in dieci sezioni, inaugurata il 2 giugno e continuerà fino al 9 ottobre, il catalogo pubblicato per Rizzoli Lizard, Remain in light (p. 432, euro 59) è un prezioso cartonato, in copertina c’è una delle sue foto iconiche: Lou Reed e Laurie Anderson in un abbraccio commovente, di una dolcezza spietata se poi si ricorda il carattere non facile del rocker newyorkese. Alla fine del librone le storie delle foto perché una foto, appunto, non è solo immagine ma è racconto.
Harari viene solitamente associato al mondo della musica, la sua carriera comincia nel ’65 (13 anni!) quando Shel Shapiro gli concesse un’intervista; sorprendentemente questa è la sua prima mostra antologica: «Oltre ai musicisti volevo dilatare gli interessi con scrittori, scienziati, designer, però continua ad esserci attrazione per i ritratti dei musicisti… anche perché ci sono assessori alla cultura fra i 40 e i 50 anni che sono cresciuti con la musica, è nel loro Dna, è forse il momento giusto per farla entrare in spazi che mai avrei pensato avrebbero ospitato una mostra del genere».
Il titolo Remain in Light è una citazione del disco dei Talking Heads (1980), aveva pensato a You want it darker di Leonard Cohen, anche perché durante la pandemia stava addensando le foto proprio sotto l’influenza di quel disco, poi ha capito che c’era bisogno di luce: «Anche perché sono le parole che il fotografo dice al soggetto, rimani in luce, e allo stesso tempo è l’esortazione a preservare la memoria».
Harari ha descritto più volte come il mondo delle star sia cambiato, ai suoi inizi bastava trovarsi all’albergo per incontrare gli artisti, cosa che con le misure di sicurezza attuali sembra impensabile: «La fotografia ha perso importanza quando la carta stampata ha perso colpi nei confronti della televisione, con l’avvento dei videoclip nei primi ‘90, prima un’intervista necessitava di essere fatta con l’artista in un paese e in un altro, con il video finisce la storia. E poi i giornali hanno cominciato a chiudere e a spostarsi verso una dimensione liquida, la fotografia è scivolata via allo stesso modo». Gli faccio notare che ormai nemmeno le band hanno più interesse a fare i video: «No, però fanno i social e funziona, quella è la comunicazione, a Vasco cosa gliene frega di fare un’intervista? I problemi sono tanti, per esempio un’agenzia che ha la distribuzione di alcuni grandi fotografi statunitensi che hanno accesso a Madonna, per dire, non chiama più i suoi fotografi italiani quando a metà del prezzo hanno un servizio di Annie Leibovitz. Ti conviene fare un servizio da un fotografo locale o uno per tutto il mondo che viene venduto a un prezzo competitivo?».
Un po’ come per il giornalismo, ormai quasi ogni intervista viene fatta al telefono dove però manca il contatto diretto: «Non c’è convivialità o il guardarsi negli occhi e far capire che sei lì anche perché ami quel personaggio. Questo è ciò che ha fatto la differenza per me all’inizio, tu dovevi esporti, dovevi esserci, non c’era un filtro, bisognerebbe tornare al contatto diretto per capire chi è il tuo interlocutore».
Forse uno dei segreti per tirar fuori l’anima dalle maschere di chi sa piangere senza provare dolore e, quindi, far emergere il lato umano di personaggi spesso schermati e anche irraggiungibili (penso per esempio agli scatti a Morricone e a Gianni Agnelli), è l’amabilità, la cura e comunque quel tono sincero con cui, anche all’interno della mostra, Harari si dimostra con chiunque senza distinzione, una disponibilità immediata, a metterti a tuo agio senza troppi preamboli, lontano dal freddo professionista: «La foto di Agnelli nasce da un progetto in cui io chiedevo la disponibilità senza che la foto fosse commissionata, in genere si aspettano qualcosa quando pagano! Quando ti poni in maniera libera, non c’è aspettativa ma la curiosità di trovare uno sguardo non allineato. Personalmente cerco di puntare sull’ironia, cerco complicità proponendo di fare qualcosa che non sia mai stata fatta prima, sono anche disposto a buttare via le foto ma tentiamo qualcosa di diverso, in questo senso sono anche un po’ kamikaze!».
In sottofondo dalle sale al piano di sotto arrivano i pezzi dei Rolling Stones e degli U2, a un certo punto mi chiede di sederci di fronte al suo computer, mentre mi risponde rivede alcuni scatti. Si scusa di nuovo, ha tempi stretti, Anna, la sua assistente mi fa un sorriso come a dire, è sempre così: «Quello che sto verificando nelle mie mostre è la voglia di racconto, il desiderio di approfondire il più possibile uno o più periodi formativi con i testimoni di prima mano, prima che non ci siano più. È un desiderio che condivido perché i più giovani hanno fame di racconto».
La curiosità di Harari esce fuori anche nell’ascolto, cosa non comune nelle interviste, gli racconto di quando lavoravo per un mensile ed arrivò dagli Stati Uniti la telefonata di Lou Reed, non esattamente contento (e spiegato in maniera estremamente diretta…) della foto pubblicata in prima pagina dal giornale, secondo lui si vedeva qualche ruga di troppo: «(ride, ndr) Ho scelto di vivere Lou Reed non all’ombra della sua leggenda ma per la persona che era quando ci siamo conosciuti. In particolare la tournée del 2002 in cui suonò con Laurie Anderson, nell’arco di due settimane avvenne un cambiamento, si ammorbidì, lei riuscì a trasformare la rockstar un po’ arrogante e schiava del meccanismo: scrivo, registro, promuovo e vado in tournée. Gli fece capire che poteva vivere da artista libero».
Una delle foto più emblematiche è di Gregory Corso steso su un lettino all’aperto, vestito, con gli occhi chiusi, in cui sembra il Cristo del Mantegna: «Ero nel bar di un albergo a Positano, davo le spalle alla piscina, a un certo punto un grande tonfo, urla scandalizzate di alcuni lì vicino, vedo Corso nell’acqua vestito. Il proprietario dell’albergo rideva perché gli dava asilo dopo le sue scorribande notturne in cui, di solito, si fermava a dormire nella auto che trovava aperte, poi si faceva un bagno in piscina, andava a farsi una doccia e si insaponava vestito per poi sdraiarsi sul lettino ad asciugarsi. Gli feci delle foto sotto la doccia, ma era completamente fuori e non si accorgeva di niente, quando si è steso sul lettino ho visto il Cristo…».
Le foto esposte sono diverse per stile e impostazione, con un velo di malinconia mi spiega che a ogni scatto vorrebbe utopisticamente resettarsi per dedicare un’attenzione diversa a ognuno dei suoi soggetti. In questo senso ai giovani consiglia di partire dal contenuto: «Ai ragazzi dei workshop chiedo di fare un autoesame per capire se stanno utilizzando il linguaggio adatto, magari sono degli scrittori e la fotografia è solo una scorciatoia, ma niente è facile, devi anche pensare. È molto importante vivere ciò che si racconta, Diane Arbus fotografava i freaks per la strada ma viveva con loro e come loro, senza arrivare a quegli estremi bisogna però essere dentro all’esperienza che si racconta. Oppure si pensi a Salgado che si sposta mesi per lavorare, non si fanno foto di reportage durante le vacanze».
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