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Guido Fink, osservare senza farsi notare, «à la» Lubitsch

Guido Fink, osservare senza farsi notare, «à la» LubitschErnst Lubitsch, «Trouble in Paradise», 1932

Scritti sul cinema L’intelligenza interpretativa di Guido Fink nel segno del comico e del genere antagonista: «La doppia porta dei sogni», edito dalla Cineteca di Bologna

Pubblicato più di un anno faEdizione del 5 marzo 2023

«Con qualche eccezione del tutto trascurabile (il colonnello inglese Mandrake, a esempio), i personaggi amano tutti la bomba e hanno ormai imparato a non preoccuparsi», e se attraverso la comicità Kubrick ottiene la partecipazione attiva dello spettatore, qui l’umorismo «fatica a liberarsi di un fondo di autentico sgomento, di non mentita trepidazione. Si ride, ma si è colpevoli al tempo stesso del proprio “non preoccuparsi” quotidiano». Torna in mente, attualissimo, il commento al Dottor Stranamore stilato nel 1965 dal trentenne Guido Fink per il volumetto monografico La fantapolitica (1966), sedicesimo degli storici quaderni «Cinestudio» del Circolo Monzese del Cinema; e per più di un motivo torna oggi in mente, quella critica della celebre «nightmare comedy», leggendo il volume curato da Alessandra Calanchi e Paola Cristalli, La doppia porta dei sogni Scritti sul cinema 1977-2001 (Edizioni Cineteca di Bologna, pp. 401, euro 18,00).

Innanzitutto poiché questa selezione che non rispetta la cronologia delle pubblicazioni ma quella di «un’ideale storia del cinema “secondo Fink”» (Cristalli) si apre con un saggio del ’94, Le mani sulla culla. Griffith e Whitman, con cui il critico riprende un tema sin da allora a lui caro. Fink legge l’origine e la natura del montaggio cinematografico attraverso l’«emblematica culla» strappata da Griffith al poema di Whitman, Out of the Cradle Endlessly Rocking, e usata «come leitmotiv del suo film più ambizioso e delirante, Intolerance», nell’orizzonte di un triplice tentativo di riappropriazione – dell’immagine nei confronti della parola, del qui e ora nei confronti del passato e del Nuovo Mondo nei confronti del vecchio. Se qui il richiamo a Ejzenštejn è esplicito («Come si comporta Whitman? Come un prefetto montatore»), implicito e però inevitabile è quello alla più autorevole lettura del testo di Whitmam, l’Explication de Texte Applied to Walt Whitman’s Poem «Out of the Cradle Endlessly Rocking» con cui Leo Spitzer presentava, nel 1949, una sintesi delle sue ricerche sulla Stimmung e l’armonia universale.

E proprio nel volumetto di «Cinestudio», Fink aveva citato l’explication de texte – intanto raccolta nel postumo Essays on English and American Literature (1962) – leggendo Gli uccelli di Hitchcock (come il testo di De Maurier) «Spitzer alla mano», cioè quale catastrofico e angoscioso rovesciamento dell’antico tema, illustrato appunto dal grande critico viennese, dei volatili cantori e interpreti col loro refrain della musica del mondo e dei cori delle gerarchie angeliche. D’altra parte, in un saggio su Uccellacci e uccellini (Prosa e crisi dell’ideologia nell’ultimo film di Pier Paolo Pasolini) apparso pochi mesi dopo nella rivista di Guido Aristarco, egli aveva anche riconosciuto un’influenza sotterranea di Spitzer nell’allegoria artatamente grossière con cui Pasolini consegna il suo materiale «ideologico» alla logorrea del corvo marxista. L’immagine del poema di Whitman è un leitmotiv di Griffith come l’explication di Spitzer è un leitmotiv di Fink.

Dunque diverse ragioni inducono a ricordare, il nuovo libro alla mano, i testi degli anni sessanta come quello sulla Fantapolitica, e a sperare, con le curatrici, che anche la prima produzione di Fink, ricca quanto precoce, possa presto confluire in un altro volume. Poiché le pagine della Doppia porte dei sogni, che spesso alludono al caso limite della commedia dell’incubo, e che, scritte sul confine labile del riso e dell’angoscia, del comico e del tragico, colgono la commedia nel suo insinuarsi nella tragedia, e quest’ultima mentre si salva comicamente dal suo destino di tragedia, ruotano al tempo stesso intorno ai tipici temi finkiani dei rapporti fra immagine e scrittura, critica letteraria (di Poulet, Barthes, Kristeva, Northrop Frye, Corti, Bloom, William Empson…) e analisi del film, fra teatro e scena cinematografica – tra la vecchia Broadway e Hollywood, insieme vincente e assoggettata (del capolavoro di Lubitsch, To be or not to be, Fink scrisse che «il teatro è il bersaglio satirico del film, ma anche il suo cuore segreto e la radice del suo riscatto»). E la storia delle singolari relazioni e metamorfosi dei linguaggi e delle forme coincide in fondo con la storia del comico compresa nei suoi rapporti col genere antagonista, cioè con il tratto più caratteristico della stessa storia del cinema à la Fink.

Così il secondo capitolo, «Gaio e tragico! Breve e interminabile!», un lungo studio sulle «frontiere della commedia americana» scritto per la Storia del cinema mondiale (Einaudi) diretta da Gian Piero Brunetta, trae il titolo dalla Commedia degli errori (di cui Fink ci ha anche donato la bella prefazione dell’edizione Garzanti), e si apre con la definizione – «la più perfida – ma anche, forse, la più esatta» – coniata dalla scrittrice Angela Carter: la commedia è «la tragedia che capita agli altri». Fink procede qui lungo il limite fra «gaio» e «tragico» per leggere il genere hollywoodiano e i suoi derivati, il gioco dei doppi e delle somiglianze, degli scambi di persona nei film di Lubitsch e soprattutto di Sturges, e, da Hawks (Susanna) attraverso il Mankiewicz di Lettera a tre mogli, e poi Wilder, Preminger, Blake Edwards, l’amato Stanley Donen, Bogdanovich e Allen, giunge ai contemporanei American Beauty e Il grande Lebowsky per constatare che oggi «addirittura impraticabile risulta la vecchia, consolante certezza che quelle disavventure così piacevoli a vedersi (…) accadano esclusivamente agli altri, riservandoci il ruolo confortevole degli spettatori».

Guido Fink, giugno 1989

Questa «certezza» ormai smentita non è però così estranea all’altra, formulata in un motto di Lubitsch – «esistono tanti modi di piazzare la macchina da presa, e in realtà ce n’è uno solo» – che Fink cita più volte, per osservare che «nessuno, forse, ha fatto del cinema con tanta serena infallibilità (…) implicita, non ostentata» o, altrove, che «nessun allievo, nemmeno Wilder, saprà ritrovare certezze così ferree, così incapaci di sbagliare». Se dunque il momento della commedia perfetta, cioè «il luogo geometrico in cui le tensioni opposte s’incontrano e si armonizzano» e la «regia non si sente e non si deve sentire» era stato raggiunto e subito perduto tra gli anni trenta e quaranta, i tecnicismi dovevano prima o poi scatenarsi, non come la celebre macchina di Muranu (entfesselte Kamera) ma in un cinema «freneticamente manieristico» che ci fa «a un tempo sorridere e provare brividi di raccapriccio».

Ora, anche questa chiusa sugli «autori dei nostri giorni» può a sua volta richiamare quella del ’65-’66: «Ultimissime», scriveva Fink per introdurre la più recente brama «fantapolitica» di un produttore berlinese, tale Arthur Brauner, che aveva invitato le televisioni di ventidue paesi a rispondere in un film alla domanda: Cosa sarebbe accaduto se Hitler e Mussolini avessero vinto la guerra? «Brauner, riferiscono i giornali, ha già una sua tetra visione del 1965 nazifascista: intere razze sterminate, nazisti sulla Piazza Rossa, campeggi delle Hitlerjugend sulla Costa Azzurra (…) Consoliamoci: finché sarà possibile una risposta a domande del genere, finché avrà senso porsi la domanda stessa, si potrà ancora, forse con eccessivo ottimismo, sperare almeno in un mondo non peggiore». Non è necessario ricordare la vicenda di Fink, studente di Bassani alla scuola ebraica di Ferrara, scampato, al contrario del padre, alla Notte del ’43, per intendere questo «consoliamoci» come il più lontano da qualsiasi «consolante certezza» e insieme il più aderente all’implicita, non ostentata infallibilità dello humour Lubitsch, che qui ottiene il tenore di un vero paradigma critico.

E se questi scritti oggi meritoriamente raccolti – e dedicati al cinema americano o yiddish, a quello inglese o hollywoodiano negli anni del conflitto, al neorealismo visto da Hollywood, all’Antonioni ferrarese o al genio fantascientifico di Kubrick – testimoniano che l’allievo brillante di Carlo Izzo, l’amico di Seymour Chatman, il fine studioso di Irving, Melville, Hawthorne, Poe e James è stato davvero uno dei maggiori benché meno celebrati esponenti della saggistica contemporanea, è proprio per la sua capacità di attenersi alla massima del regista di Ninotchka.

Lo provano gli esempi più alti: il saggio, dal finale di stupefacente intelligenza, sulla commedia di Hitchcock nascosta nelle pieghe dei thriller, quello sul dispositivo della «voce over», o anche un breve passo che riprende le osservazioni su Hawthorne e lo specchio già avanzate ne I testimoni dell’immaginario (l’opera maggiore di Fink, del 1978). Tematizzare il punto di vista e la stessa voce del narratore, la funzione del mediatore o del padre-autore che tutto sa e tutto scioglie, esaminare quindi il ruolo degli spettatori-narratari fin nella stessa sparizione del mediatore, è, per il critico, lo storico o lo scrittore, l’unico modo per osservare senza farsi notare, o per non tacere, parlando con la voce più certa, che non si sente e non si deve sentire. È così a volte la citazione un motto di spirito a chiudere un saggio che deve chiudersi come appunto si chiude un buon Witz.

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