Ci incontrammo per la prima volta negli anni Cinquanta, entrambi studenti universitari, lui a Milano e io a Torino. Frequentavamo i gruppi dossettiani, dove si respirava una politica di cambiamento, di impegno totale. Era quella l’area della Dc che esprimeva le posizioni più avanzate, c’era un’ ansia di cambiamenti». Guido Bodrato, classe 1933, è stato uno dei protagonisti della sinistra Dc, vicesegretario quando De Mita era alla guida della balena bianca. Per lui sono ore di commozione e di ricordi.

Che leader è stato De Mita?

Un mix tra il pragmatismo di Fanfani e la coerenza strategica di De Gasperi. Alla fine è stato un decisionista, più di tutti quelli della sua generazione. Un segretario che ha dedicato moltissima attenzione al tema delle alleanze. E certamente, essendo lui esponente della sinistra Dc, ha sempre guardato a sinistra. La sua corrente, Base, era quella di Enrico Mattei, della presenza dello Stato nell’economia, del rilancio dell’Iri. Ma lui era qualcosa di più: i leader della Base erano tutti lombardi, lui portava in dote la sua cultura meridionale.

L’intellettuale della magna Grecia…

Certo, c’è il suo legame con Nusco che è durato fino alla fine e che ha un valore speciale: quanti altri ex premier avrebbero accettato di fare il sindaco un piccolo paese? Per lui c’è sempre stata un’idea della politica come rappresentanza di una comunità, qualcosa di fisico, di reale. Ma forse non tutti conoscono la realtà di Avellino, che è una città dove si è sempre respirato politica, in modo quasi assoluto. In fondo si può dire che De Mita non è stato un’eccezione rispetto alla sua città, ma l’espressione di una città per cui la politica era tutto. In questo senso trovo ingiuste le accuse che gli sono state rivolte di politica clientelare: lui ha rappresentato un elemento di rottura e di modernizzazione della politica meridionale, in cui le idee hanno sempre avuto la prevalenza.

Che rapporti ha avuto con Psi e Pci?

Bisogna essere chiari: la sinistra Dc non è mai stata un pezzo di sinistra dentro la Dc. Se non capiamo questo è difficile interpretare i leader di quella stagione. Pensiamo al rapporto con Craxi, un dialogo che definirei incerto, in qualche modo obbligato: entrambi si sentivano legati ad una maggioranza che tutti e due avrebbero volentieri sciolto. Erano obbligate a convivere e competere, con Craxi che evocava la possibilità di costruire un’alternativa con il Pci. E allo stesso tempo la Dc perdeva consensi.

E col Pci?

De Mita nel 1967 inventò il “patto costituzionale”, che apriva al Pci sulla possibilità di modifiche costituzionali comuni, a partire dal nuovo assetto delle regioni. Ma non riguardava il governo nazionale. E questo in fondo è rimasto un suo tratto. Ciriaco ebbe rapporti intensi con Ingrao, con Berlinguer non ci fu mai un reale confronto: si ascoltavano, ma non ci fu mai un rapporto e una discussione profonda paragonabile a quella che il segretario del Pci ebbe con Moro.

E il rapporto con Romano Prodi?

Due caratteri diversi che a volte faticavano a capirsi. Due uomini abituati a guidare, il decisionismo di De Mita poteva apparire urticante, e i temporali tra loro erano inevitabili.

Su quali temi?

Penso alle privatizzazioni. Ciriaco era più francese, molto interessato alla presenza pubblica negli asset strategici, teorico di un’economia mista tra stato e mercato, non intendeva rinunciare all’intervento pubblico nell’economia, Posizioni che allora potevano apparire di retroguardia e che oggi, invece, sono tornate di moda.

Come ricorda la sua esperienza a palazzo Chigi?

Per lui il governo era un aspetto fondamentale della politica, non solo amministrazione. Non avrebbe mai guidato governi di tregua, per capirci. E dava una importanza fondamentale alla politica estera: voleva che l’Italia contasse, non si mai mosso sullo scacchiere internazionale per avere dei vantaggi sul piano interno.

Come visse la fine della Dc?

Da giovane seguace del pensiero dossettiano ha sofferto la fine di un forte partito di ispirazione cristiana. É sempre rimasto un proporzionalista, non ha mai amato il bipolarismo e la democrazia maggioritaria anche se ha saputo convivere anche con quella stagione. Non è mai stato entusiasta dell’Ulivo e poi della Margherita. Con il sole e con la pioggia è sempre rimasto legato allo scudo crociato, e questo per me è un suo grande merito.