Guidieri, raccontare l’intraducibile
Nel vedere ripubblicata l’opera maggiore di Remo Guidieri, Il cammino dei morti, a distanza di trentacinque anni dalla prima uscita e a quasi due dalla scomparsa dell’autore, viene da pensare che avesse ragione Goethe quando diceva che i libri hanno un loro destino (Adelphi «Il ramo d’oro», pp. 440, € 30,00). A leggerlo oggi, infatti, si capisce meglio non solo quanto dovesse apparire inattuale allora, nel panorama delle ricerche etnologiche cresciute sull’onda dello strutturalismo e dell’insegnamento di Lévi-Strauss, del quale Guidieri è stato allievo infedele, ma soprattutto quanto sia all’altezza dei tempi proprio ora, in un’epoca che ha posto radicalmente in discussione la centralità della cultura europea e riempie pagine sui diritti delle differenze, cogliendo una questione seria con argomenti spesso caricaturali. Guidieri si era posto il problema in modo personale e fecondo, cercando lo spazio di un dialogo che si sviluppa attraverso malintesi, tentativi di avvicinamento mai immuni dall’incomprensione e che si basano piuttosto sulla disponibilità all’ascolto e sulla rinuncia a sistemi di categorie affinati dal sapere d’accademia.
Di qui i dubbi, per non dire i tormenti, che Guidieri confessa di avere avuto per anni sulla forma a cui ricondurre i materiali da lui raccolti nel corso di un lungo soggiorno in Melanesia presso la popolazione Fataleka di Malaita, una delle Isole Salomone. La scena in cui l’ospite europeo viene valutato in una sorta di esposizione teatrale al villaggio e infine accolto da una comunità che non ha ben chiari i motivi del suo viaggio, così come comincia a non averli chiari neppure il ricercatore, è l’atto che inaugura i ripensamenti. Come si incontra l’altro? Com’è possibile dargli voce senza assimilarlo a quel che ci è familiare? Quante strutture bisogna abbandonare e come si può, nonostante tutto, mantenere una centratura, sapendo che la distanza non sarà mai superabile e che, anzi, proprio lo spazio sincopato delle differenze reciproche è l’unico possibile per un osservatore esterno?
Se l’obiettivo è trovare uno spazio comune, l’esploratore deve lasciarsi guardare, esaminare, deve restare passivo mentre viene giudicato da una diversità che gli toglie ogni sicurezza, e limitarsi al grado minimo di sistemazione di quel che gli viene offerto: la ripetizione. Se un argomento viene ripetuto molte volte e da interlocutori diversi, è segno che gli viene attribuita importanza. E se a qualcosa si attribuisce importanza è segno che debba essere registrato. Ma come? Non incasellandolo in schemi, per esempio in genealogie parentali, strategie matrimoniali, descrizioni di riti da associare ad altri riti, ma restando il più possibile aderenti al senso di disorientamento che si era provato ascoltando e guardando. Per questo la forma del libro, organizzata per argomenti ricorrenti che non hanno una vera e propria gerarchia, finisce per essere quella di una serie di racconti: quelli che erano stati fatti al ricercatore e quelli che riportano le sue osservazioni.
Lo spazio comune non è dato a priori, non basta appartenere al genere umano e tantomeno essersi dotati di chiavi di lettura inevitabilmente basate su analogie con la cultura alla quale si appartiene. Bisogna essere disposti a perdersi senza avere la pretesa di ritrovarsi, come vorrebbero le peripezie della coscienza e dell’io, ma per rimanere proiettati verso un altrove di cui si sa fin dall’inizio che sarà impossibile da afferrare e da comprendere. L’etnologia, scrive Guidieri, frequenta «il limite di ciò che è spiegabile», abita «all’incrocio tra un noto rassicurante e che l’acceca e un non noto che, appena scorto, fa dubitare della conoscenza». L’interpretazione è il mezzo attraverso il quale si è cercato di ignorare o di superare questo limite. Si è inventariato il disperso, lo si è ricondotto a invarianti, a universali, le differenze sono state schematizzate per consegnarle «a un emblematico museo della diversità archiviata», l’incontro con l’alterità è stato filtrato dal «discorso mistificatore di un’ideologia».
Non si fatica a riconoscere nel pensiero del colonialismo l’impalcatura di una simile ideologia, ma d’altra parte liberarsi della propria cultura è impossibile e per trovare un linguaggio capace di autorizzare lo scambio con la diversità bisogna accettare il paradosso ed enunciarlo, senza nascondersi sotto la toga del sapere acquisito: «se esiste una particolarità nell’esperienza che tento qui di restituire, essa è dovuta al fatto che per viverla ho dovuto prima costruirmi un riparo da cui, poi, potermi confrontare con quell’alterità» e attraversare anche il momento della sua «negazione», che in fondo è «il vero progetto epistemologico dell’antropologia contemporanea», ovvero «una delle forme attuali di negazione della libertà».
«Esperienza» è una parola chiave ed è quella che legittima la costruzione della testimonianza in forma di racconto. A mano a mano che impara la lingua Fataleka, Guidieri riduce il più possibile le pretese dell’interpretazione e assume il ruolo del traduttore che ci accompagna nei territori dell’intraducibilità e si lascia a sua volta seguire nei suoi smarrimenti, nella battaglia contro la solitudine e l’ozio che attraversa le sue giornate come un indesiderato narcotico. Le categorie etnologiche non vengono escluse del tutto, ma se ne rovescia la prospettiva per far emergere, al loro posto, quelle Fataleka, la cui semplice enunciazione già richiede uno sforzo del linguaggio perché siano appena ripulite dal primo strato di opacità che le rende quasi invisibili ai nostri occhi. Quando finalmente l’etnologo viene invitato ad assistere a un lutto, si accorge di avere atteso quel momento «come si fa la posta a una preda», con la speranza di restarne segnato come dal lampo di una rivelazione.
Eppure, anche questa volta, ogni aspettativa sarebbe stata delusa. Al posto del rituale o della cerimonia c’erano piuttosto discrezione, sobrietà, passaggi codificati e messi in sequenza ma non spettacolarizzati, nonostante le azioni collettive e la presenza eccezionalmente intensa della musica: «ciò a cui assistevo non era un avvenimento né per i miei compagni, né per me», mentre era chiaro che per i Fataleka l’unico vero evento era la presenza dell’invitato-intruso, l’uomo bianco che onorava il momento prima assorbendo l’attenzione di tutti e poi scivolando nell’indifferenza generale. Solo a patto di scomparire e di essere ignorato, quando i tributi al morto richiedevano massima concentrazione, l’etnologo poteva registrare nella memoria e articolare in racconto il cammino dei morti, un percorso nel quale le trattative di scambio fra clan, la costruzione di una dimora-della-festa che valeva anche come alloggio per quel che c’era da scambiare, l’ostensione delle reliquie e il momento del cannibalismo parlavano il linguaggio della relazione fra antenati, persone vive, economie ed equilibri sociali a cui si poteva risalire solo attraverso indizi. Questi, a loro volta, aprivano una visione verso differenze che non sentivano nessun bisogno di sentirsi comprese, ma solamente di essere affermate e rispettate.
Un’impresa, quella di Guidieri, che non era destinata a fare «scuola», né avrebbe potuto, dato che non produceva nessun sapere e nessun sistema ma solo un esempio, uno fra i molti apparentabili ad altri testimoni irregolari che hanno rasentato il bordo di una disciplina accademica senza mai veramente abbracciarla e neppure lasciandosene fagocitare. Il rischio, che Guidieri ha accettato consapevolmente, era di essere considerato un outsider in tutti i campi da lui toccati in seguito: critica d’arte, dell’architettura, filosofia, estetica del quotidiano, sempre alla ricerca dell’arcaico e del mito che si nascondono nei bassifondi dell’attualità. Il lascito intellettuale di cui Il cammino dei morti è la fondazione, e che è particolarmente in sintonia con le esigenze del presente, è perciò paragonabile a quello descritto da Georg Simmel quando parlava del proprio: non un patrimonio consolidato e ben sistemato, ma un’eredità «in denaro contante, divisa tra molti eredi dei quali ognuno investe la sua parte in modo conforme alla propria natura, senza interessarsi dell’origine di quella eredità».
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