I Ricordi del Guicciardini sono un testo conosciuto, ma un po’ vagamente, un testo che viene citato, ma spesso come fosse un piccolo dizionario di citazioni. Spesso li si consulta ma non vengono letti come un’opera. Forse perché, nonostante la mole di questa nuova edizione a cura di Matteo Palumbo – Francesco Guicciardini, Ricordi, Einaudi «Nuova raccolta di classici italiani annotati» (pp. XLVII-552, euro 56,00) –, sono uno scritto così breve che non sembra necessario soffermarcisi a lungo? Oppure, perché si presentano sotto le vesti di una forma ben nota nella lunga durata della cultura europea, ricondotti quindi alla stanca universalità ripetitiva dell’aforistica e delle massime? Forse perché il titolo (ricordi) rischia di richiamare le forme, egocentriche e volentieri anacronistiche, della memorialistica? Come nel ricordo C 141 («spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sí folta, o uno muro sí grosso, che non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa, o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India; e però si empie facilmente el mondo di opinione erronee e vane»), tutto si svolge come se si stendesse sopra il libricino del Guicciardini una «folta nebbia» che complica una sua vera e propria lettura.

Per tentare di uscire da questa impasse conviene ricordare una banalità ossia che, il più delle volte, i classici (e i Ricordi fanno parte di questa categoria) non nascono tali e non sono pensati e creati per esserlo: sono gli usi e le letture a cambiare la prospettiva con la quale vengono presi in mano. Diventa allora necessario un percorso all’indietro per tornare alle condizioni e alle ragioni di chi non scrive solo perché ha tempo libero e, ancora meno, per farsi riconoscere come auctor. Ciò vale ovviamente tanto più per un testo pubblicato solo postumo (Guicciardini muore nel 1540 e la prima edizione parziale con titolo diverso esce a Parigi nel 1576), in modo frammentario e filologicamente poco attendibile (con redazioni A, B e C a lungo non sempre ben distinte). D’altronde, prima che si stabilisse (provvisoriamente ?) il nome di ricordi, la definizione (e quindi la qualificazione della natura dello scritto) è rimasta mobile e fondamentalmente indefinita: ghiribizzi, consigli, avvertimenti, pensieri, massime, precetti, proverbi…

Strano testo, quindi, che introduce enunciati generali ma non intende proporre regole (si veda il ricordo C 6) e si concentra sui famosi particolari; nel quale l’autore parla di sé con toni che non sono quelli della memorialistica; in cui i proverbi valgono solo per setacciare e smontare il loro significato. Uno scritto che non si sa come nominare e che non va da sé definire come un libro, ma che comunque, se di libro si tratta, è un libro incompiuto (come viene giustamente suggerito, sulla scorta di una notazione di Tiziano Zanato, dal commento dei due ultimi ricordi C 220 e 221, i due unici frammenti privi di numerazione). Un testo-libro infinito, si potrebbe dire, che rimane poi segreto, come ricorda Palumbo nell’introduzione. Segreto ma non prodotto da una qualsiasi dissimulazione. Un «testo da cassetto», forse, ma non perciò imbalsamato o sciolto da ogni dipendenza con il presente. Non tanto perché non è escluso che il Guicciardini, nel maggio del 1530, lo avesse ripreso un’ultima volta con l’intenzione di pubblicarlo, tempi permettendo (la cosa rimanendo pur sempre largamente ipotetica) ; ma soprattutto perché la matrice stessa dei ricordi non è solo cognitiva.

I ricordi traducono un’esperienza di scrittura attiva, d’intervento, radicalmente politica, scrittura di un uomo che non scrive per diletto e otium, perché gli si è liberato un po’ di tempo, ma perché ha bisogno di scrivere per capire e per agire. Non a caso i suoi primi ghiribizzi sono databili al 1512 e alla sua prima importante esperienza politica come giovanissimo ambasciatore della repubblica fiorentina in Spagna presso Ferdinando il Cattolico. Non a caso la prima redazione lunga (seppure non autografa, l’attribuzione di tale redazione A non è più discussa) sorge durante le esperienze dirette della guerra in Lombardia per il funzionario pontificio, tra il 1520 e il 1523. Non a caso le ultime due, fondamentali, redazioni (B e C) sono legate al trauma vissuto nell’ultima repubblica fiorentina, tra il 1527 e il 1530, quando l’autore, troppo legato al papa Medici Clemente VII e alla sua famiglia, si ritira in villa. Non stupisce in tale situazione l’inserzione nel 1530 del primo ricordo sull’assedio della città natia che stabilisce, senza astio, e anzi con una forma di ammirazione, un collegamento umano, intellettuale e politico tra le attuali manifestazioni dell’ethos repubblicano e il momento savonaroliano di trent’anni prima.

Quella complessa, variegata, personale e ripetuta «operazione di scrittura» è legata profondamente all’attualità e all’impegno storico (si pensi al fatto che il Gramsci dei Quaderni del carcere intendeva proporre con i propri scritti dalla prigione «una serie di note che siano del tipo dei Ricordi politici e civili del Guicciardini»).
Comunque sia, solo nel 1951, presso Sansoni, comparve la prima edizione «critica» dei Ricordi a cura di Raffaele Spongano (precedente e interlocutore implicito di Matteo Palumbo nell’iniziativa editoriale einaudiana). Settantadue anni dopo Spongano, Palumbo ha potuto contare per questo nuovo cantiere di edizione e commento sulla sua lunga esperienza di lettore del Guicciardini – dal primo volumetto «gramsciano» del 1984 (Gli orizzonti della verità. Saggio su Francesco Guicciardini, Liguori) fino al più recente «Mutazione delle cose» e «pensieri nuovi» (Peter Lang, 2007), oltre a innumerevoli saggi e articoli in merito. Ma il lavoro editoriale si nutre anche della collaborazione filologica del figlio Giovanni Palumbo (al quale si deve l’edizione critica della redazione C, nel 2009) nonché del grande guicciardinista belga Pierre Jodogne (responsabile a lungo della nuova edizione del carteggio del Fiorentino e che offre qui la sua edizione critica della redazione B). In tal modo si articolano critica ed ecdotica, dando a questioni cruciali una risposta al contempo, e indissociabilmente, filologica ed ermeneutica.

L’edizione che abbiamo ora in mano sarà ormai quella di riferimento per almeno due motivi. In primo luogo, ed è un richiamo al fatto che la veste tipografica di un’edizione può avere effetti interpretativi, si supera il problema maggiore dell’edizione Spongano, ossia la teleologia insita nella sua scelta di presentare a piè di pagina tutte le redazioni successive prima dell’ultima, come se questa fosse il puro prodotto genealogico delle precedenti e giungesse a una forma di stabilità (o addirittura di perfezione) testuale. Se la migliore critica degli scorsi decenni ha giustamente smontato il mito di una redazione definitiva, fondato su un percorso «progressivo», la logica piramidale viene definitivamente messa da parte in questa nuova edizione; il che ci consente di distinguere, «orizzontalmente», tra due momenti: una «galassia» che ruota attorno al testo della redazione B (che Giovanni Palumbo propone di chiamare «Ghiribizzi») e un testo dei «Ricordi» veri e propri che corrisponde alla redazione C («Dai Ghiribizzi ai Ricordi. Per una nuova e compiuta edizione dei pensieri del Guicciardini», di Giovanni Palumbo, pp. XXVI-XXXIX).

L’edizione einaudiana di Matteo Palumbo inserisce in nome di questa logica la serie delle prime redazioni in appendice (pp. 497-549), conferendo in tal modo stabilità e autonomia a quel blocco, con non poche conseguenze interpretative. Ciò che è decisivo, poi, risiede nel fatto che viene pubblicato qui, per la prima volta in modo così articolato, un commento lineare approfondito dopo ogni ricordo. Si stabiliscono ponti tra le isole dell’arcipelago dei ricordi, ma anche tra tutti i testi contemporanei dell’autore, con largo ed esaustivo richiamo alla critica più recente. Vi si illustrano le motivazioni umane e politiche quanto intellettuali di ogni frammento. Dobbiamo essere grati al curatore di questi Rerum politicarum fragmenta dello statista fiorentino perché, in tal modo, lo sforzo interpretativo dà nuova vita alle parole: l’attenzione rigorosa alla testualità rende politica la filologia di partenza.