Sono più di mille le vittime accertate del terremoto di magnitudo 5.9 che ha colpito alcune province orientali dell’Afghanistan. Almeno 1.600 i feriti, secondo quanto riferiscono le autorità di fatto del Paese, i Talebani.

Il bilancio è provvisorio: secondo Raees Hozaifa, direttore del dipartimento per l’Informazione e la cultura della provincia di Paktika, sarebbero centinaia le persone rimaste intrappolate sotto le case crollate.

I SOCCORSI sono inevitabilmente lenti: i distretti più colpiti sono tra quelli meno accessibili del Paese: Barmal, Ziruk, Nika e Giyan nella provincia di Paktika, il distretto di Sperah nella provincia di Khost, entrambe a ridosso del confine con il Pakistan.

Si tratta di villaggi di montagna spesso lontani ore di automobile dai principali centri urbani, lungo strade sterrate. Territori montuosi, in cui la vita è dura, le risorse limitate, il governo assente, le famiglie numerose. Luoghi in cui la rete sanitaria è particolarmente fragile, dove non ci sono presidi medico-sanitari e dove il governo centrale di Kabul è visto con rassegnata distanza e diffidenza.

Che il governo sia retto da tecnocrati con un passato all’estero, come nel caso della Repubblica islamica collassata il 15 agosto 2021, o che ci siano religiosi con la barba lunga e nessuna esperienza tecnica di gestione della cosa pubblica, come nel caso dell’Emirato dei Talebani, tornati al potere dopo vent’anni di guerriglia e già alle prese con una gravissima crisi umanitaria e con un grave isolamento politico.

IL QUADRO è ancora incerto: le comunicazioni sono limitate e gli elicotteri di soccorso inviati dal ministero della Difesa retto da Mullah Yaqoob, figlio del fondatore dei Talebani mullah Omar, non sono sufficienti né a coprire l’intera area investita dal terremoto, né a trasportare le equipe di medici.

Sono i cittadini delle aree e delle comunità adiacenti a essersi mobilitati per primi, tirando fuori dalle macerie centinaia di corpi. A volte, nessuno li rivendica: intere famiglie sono state uccise nel sonno.

LA TRAGEDIA è tale da aver smosso anche l’Amir al-Mumineen, la Guida dei fedeli Haibatullah Akhundzada, che ha reso pubblico un messaggio di cordoglio rivolto alla nazione. Si tratta di un messaggio scritto, perché dell’Emiro non c’è traccia, non si mostra in pubblico, evita gli incontri, tanto da aver fatto imbestialire anche alcuni ministri di peso dell’Emirato tra cui, pare, lo stesso mullah Yaqoob, escluso troppo a lungo da incontri importanti.

Nel messaggio, Haibatullah fa le condoglianze alle famiglie e ai parenti delle vittime, augurando «paradiso ai martiri e veloce recupero ai feriti». E assicura di aver sollecitato tutti i funzionari «ad accorrere sulla scena il prima possibile», oltre a chiedere il sostegno della comunità internazionale. Indispensabile per un Paese che, già prima del ritorno al potere dei Talebani, dipendeva dagli aiuti degli stranieri.

SECONDO Ramiz Alakbarov, il coordinatore delle attività dell’Onu in Afghanistan, sarebbero 2.000 le case distrutte dal terremoto, e migliaia le famiglie costrette a lasciare le proprie abitazioni. Secondo quanto riporta il New York Times, Alakbarov ha aggiunto che le Nazioni Unite non dispongono degli strumenti necessari a estrarre i corpi dalla macerie, e che per farlo ci si affida alle autorità di fatto, «che hanno sicuramente dei limiti nel farlo».

Un modo diplomatico per dire che la popolazione è nelle mani sbagliate. E che serve uno sforzo dei Paesi stranieri, oltre a quello, già in atto, delle agenzie dell’Onu. Secondo Sam Mort, rappresentante dell’Unicef, alcuni camion di aiuti con materiali igienici e tende e unità mobili di soccorso avrebbero raggiunto i territori colpiti.

I TALEBANI non nascondono morti e feriti. La loro reazione è significativa: di fronte a una catastrofe naturale, i numeri delle vittime vengono diffusi e aggiornati. La comunicazione serve a mobilitare risorse, sfruttando l’attenzione internazionale verso il Paese, altrimenti intermittente.

Quando le vittime sono causate da esplosioni o scontri, che ancora accadono, i Talebani negano o limitano l’accesso ai giornalisti, evitano di dare numeri, o ne danno di poco realistici. Oltre alle macerie materiali e ai corpi di una popolazione affaticata da decenni di conflitto, il terremoto porta in superficie un nodo politico, ormai ineludibile, a dieci mesi dalla presa del potere dei Talebani: il rapporto tra le autorità di fatto e la comunità internazionale, specie Washington e Bruxelles.

SONO STATI propri i governi europei e quello statunitense ad alimentare la macchina statuale, dal 2001 al 2021, tanto che nell’estate del 2021 il 75% circa della spesa pubblica dipendeva ancora dai “nostri” soldi. Con i Talebani al potere, sono arrivate le sanzioni, il congelamento dei fondi della Banca centrale afghana, la riduzione del sostegno dall’ambito dello sviluppo a quello umanitario.

Ma l’umanitario non basta. Il Paese è in ginocchio: tre milioni di sfollati interni, il 70% dei nuclei famigliari che, secondo la Banca mondiale, non riesce a soddisfare il bisogno di cibo, 3,2 milioni di bambini che per l’Unicef quest’anno soffriranno di malnutrizione acuta, 18 milioni di persone senza accesso a cure mediche.

Per i Talebani, il terremoto è una prova di governo. Per la comunità internazionale, un monito a decidere, finalmente, cosa fare con l’Afghanistan.