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Guerra dei prezzi, le pratiche sleali dei supermercati

Nell’elenco delle pratiche di commercio sleale il Parlamento europeo ha inserito (emendamento 56) anche le «associazioni in gruppi d’acquisto di commercianti al dettaglio e all’ingrosso». Si tratta di alleanze di […]

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 6 dicembre 2018

Nell’elenco delle pratiche di commercio sleale il Parlamento europeo ha inserito (emendamento 56) anche le «associazioni in gruppi d’acquisto di commercianti al dettaglio e all’ingrosso». Si tratta di alleanze di acquisto tra colossi della grande distribuzione che operano a livello nazionale ma più spesso tra stati diversi, per contrattare enormi partite di prodotti e spuntare il prezzo più basso possibile. Le economie di scala, i bassi costi operativi e i volumi stratosferici strizzano i prezzi. Resta da capire a quale prezzo e a scapito di chi e che cosa.

QUALCHE NUMERO SPIEGA DI COSA stiamo parlando: la maggiore alleanza di acquisto in termini di fatturato è al momento la EMD (European Market Distribution, fondata nel 1989, sede in Svizzera), di cui fanno parte 14 gruppi della grande distribuzione in 21 stati (in UE, ma anche in Russia, Australia e Nuova Zelanda), per un totale di 155 mila punti vendita, una superficie pari a 4 milioni di metri quadrati e un giro d’affari totale di 198 miliardi di euro (160 in Europa e 38 in Australia/Nuova Zelanda).

In EMD è presente la catena italiana EDS (con una quota del 12,9%) che a sua volta contratta accordi di fornitura per 47 aziende, perlopiù piccoli supermercati (Acqua&Sapone, Agorà, Selex, Sun…)

Coop Italia fa parte dal 2015 di Coopernic (esiste dal 2006, con sede a Bruxelles): nelle note sul bilancio del 2016 Coop afferma che l’accordo con Coopernic «sta generando sul fronte degli acquisti significativi risparmi». Coopernic (potenza da 125 miliardi di euro) fa acquisti insieme al gruppo olandese Ahold Delhaize (nato nel 2016 dalla fusione dell’olandese Ahold e la belga Delhaize, è uno dei primi 5 gruppi europei della grande distribuzione), unica catena che fa parte simultaneamente di 2 gruppi di acquisto, in quanto membro anche di AMS sourcing.

In Coopernic c’erano anche Leclerc e Rewe, che hanno creato un altro gruppo, Eurelec, che con Coopernic ha mantenuto una forma di collaborazione.

TRA I SOCI FORNITORI DI COOPERNIC C’ERA la Conad, che ne è uscita nel 2013 per confluire in Alidis, che oggi si chiama Agecore ed è presieduta da fine maggio dal presidente di Conad, Francesco Pugliese: attualmente ne fanno parte la belga Colruyt, la svizzera Coop (nessun legame con la Coop italiana), la tedesca Edeka, la francese Groupement des Mosquetaires e la spagnola Eroski, dichiara un fatturato di 140 miliardi, ha sede in Svizzera.

La tracciabilità di queste alleanze è un rompicapo: se alcune hanno siti web (come EMD e AMS sourcing) e dichiarano chi entra e chi esce, di altre alleanze meno stabili si perdono facilmente le tracce, cambiano nomi e partner. Eurauchan, che dal 2014 teneva insieme Auchan, Metro e System U, da luglio 2018 è diventata Horizon International Services senza più System U ma con l’ingresso di Casino Group e, in agosto, anche di Dia (forte in Spagna e Sudamerica): insieme totalizzano un fatturato di 137 miliardi.

Nelle ultime settimane i veri titani europei della grande distribuzione, Tesco e Carrefour, leader di mercato rispettivamente in Gran Bretagna e Francia, che mai erano entrati nei gruppi di acquisto internazionali, hanno finalizzato la loro alleanza da 140 miliardi di fatturato. Un segnale che la guerra commerciale tra i supermercati è entrata in una nuova fase?

Una caratteristica comune di ogni alleanza di acquisto internazionale è di avere sempre un solo membro di ogni paese: dove c’è Coop non c’è Conad, né EDS e viceversa, del resto sarebbe innaturale un’alleanza tra aziende in competizione.

Si tratta sempre di strutture snelle, con pochi dipendenti, costi di gestione minimi. Diverse hanno sede in Svizzera, fuori dai radar delle autorità di controllo sulla concorrenza della EU. Possono essere basate su accordi informali oppure avere una struttura definita. Le accomuna il fatto di essere piuttosto abbottonate, come rivela una ricerca approfondita condotta dal Centro di ricerca sulle multinazionali Somo nel 2017.

Che cosa comprano? Prodotti di largo consumo, a lunga scadenza: secondo la ricerca di Somo, in particolare: farina, olio di oliva, zucchero, pasta, riso, pomodori trasformati (salsa o pelati), scatolame, biscotti, bibite, succo d’arancia, birra. Frutta, verdura e prodotti freschi in genere sono esclusi.

SI STIMA CHE SIANO TRA LE 50 E LE 100 le aziende alimentari da cui si riforniscono, mediamente grandi o molto grandi. Il modo in cui operano esclude di fatto le piccole e medie imprese (PMI): le alleanze di acquisto contattano i possibili fornitori e mettono sul piatto un certo quantitativo di merce: secondo Somo, siamo nell’ordine di decine di migliaia di tonnellate di pasta o di patatine fritte, decine di milioni di bottiglie di bibite per singolo contratto. Chi può fornirle, se non poche grandi industrie? Per le PMI, oltre al danno c’è anche la beffa perché, in concreto, le alleanze internazionali d’acquisto non comprano davvero collettivamente, ma stipulano accordi-quadro per definire il prezzo, poi l’industria alimentare che si è aggiudicata la fornitura deve ricontrattare quantità molto inferiori con le singole catene di supermercati (oltre ai termini di spedizione, stoccaggio, etc).

L’autorità europea sulla concorrenza tace. «L’impatto dei gruppi internazionali di acquisto – ci dice Gisela Tenkate, di Somo – a livello di singolo paese non è superiore a quello di ciascun supermercato: solo il 5% del volume totale delle merci di una singola catena di supermercati è acquistato tramite le alleanze di acquisto internazionali». Certo, ma visti a livello sovranazionale o intercontinentale, la situazione è ben differente.

Qualche multinazionale ha provato a ribellarsi al sistema, che prevede anche vendite sottocosto e aste al doppio ribasso: la reazione è stata il boicottaggio dei prodotti. I termini del contendere non sono noti, ma per alcuni mesi del 2018 sugli scaffali degli aderenti ad Agecore sono spariti i prodotti della Nestlé, finché è stato trovato un accordo. Ci aveva provato anche il gruppo americano Heinz (quello del ketchup) ad alzare la testa: nel 2016, per essersi opposto a una richiesta di sconto retroattivo da parte di Ahold Delheize, si è visto cancellato dalla lista fornitori (tecnicamente lo chiamano delisting).

ANCHE LE MULTINAZIONALI HANNO I LORO grattacapi: le alleanze strategiche tra supermercati acquistano non solo i loro prodotti di marca, ma anche prodotti a marchio proprio, assumendo così la doppia veste di cliente irrinunciabile (almeno per i volumi) e di concorrente nella vendita dello stesso prodotto. Con i prodotti a marchio proprio – il cui acquisto può andare a beneficio di alcuni fornitori a cui si apre un mercato importante – i supermercati possono determinare direttamente le caratteristiche delle merci e venderle a prezzi inferiori perché hanno minori costi di marketing (no pubblicità, per esempio), li possono privilegiare nelle promozioni e nella posizione sugli scaffali.

IL POTERE DI ACQUISTO DI QUESTI mega-compratori è ancora più sproporzionato se si considera che nelle negoziazioni vengono a conoscenza di informazioni riservate sui prodotti di cui possono servirsi per accrescere ulteriormente la posizione di forza.

I prezzi così spremuti garantiscono margini sempre minori alle aziende dell’agroalimentare che inevitabilmente si rifanno dove possono, a monte della catena alimentare, il più delle volte strangolando i fornitori agricoli che a loro volta si rifanno sull’anello più debole, i lavoratori.

Nella relazione alla proposta di direttiva sulle pratiche di commercio sleale si fa riferimento a studi e ricerche che mettono in relazione il taglio dei prezzi con lo sfruttamento del lavoro e la penalizzazione del reddito agricolo. Nel lungo termine, la qualità e la scelta dei prodotti per i consumatori ne possono risentire, anche tagliare i prezzi ha un prezzo: meno investimenti, meno innovazione, attenzione solo ai volumi e poco o nessuno spazio per i prodotti di qualità che, proprio perché non passano dal meccanismo stritola prezzi, finiscono per apparire costosissimi. È così che il consumatore perde cognizione del valore del cibo.
Peccato che questo potere smisurato , utilizzato solo per spuntare prezzi stracciati, non serva per innescare spirali virtuose, come imporre performance ambientali, certificazioni etiche sulle condizioni di lavoro, standard qualitativi.

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