Guarire e sovvertire le ferite
BELL HOOKS Muore all’età di 69 anni la scrittrice, teorica femminista e critica culturale, autrice di «Elogio del margine». Nata nel 1952 in Kentucky, lì dagli anni 2000 ha insegnato nel primo college interraziale del Sud. Il suo nome era Gloria Jean Watkins ma aveva scelto uno pseudonimo minuscolo come atto di rivolta verso l’egocentrismo autoriale e di omaggio a un continuum matrilineare. L’esperienza biografica si fa teoria: la violenza domestica, l’orrore di uno stupro, la fatica delle incomprensioni tra bianche e non bianche in contesto militante trovano un nome
BELL HOOKS Muore all’età di 69 anni la scrittrice, teorica femminista e critica culturale, autrice di «Elogio del margine». Nata nel 1952 in Kentucky, lì dagli anni 2000 ha insegnato nel primo college interraziale del Sud. Il suo nome era Gloria Jean Watkins ma aveva scelto uno pseudonimo minuscolo come atto di rivolta verso l’egocentrismo autoriale e di omaggio a un continuum matrilineare. L’esperienza biografica si fa teoria: la violenza domestica, l’orrore di uno stupro, la fatica delle incomprensioni tra bianche e non bianche in contesto militante trovano un nome
Dal Kentucky in ginocchio dopo il tornado che lo ha flagellato nei giorni scorsi, mercoledì è giunta un’altra notizia dolorosa, la morte di bell hooks. Per molte è come un lutto personale anche se magari non l’avevano neppure mai incontrata dal vivo perché, come Salinger faceva dire al suo giovane Holden, ci sono libri che ci lasciano senza fiato, che quando li hai finiti di leggere vorresti conoscere chi li ha scritti e potergli telefonare quando vuoi. E di libri così bell hooks ne aveva scritti, prima di tutto Elogio del margine, arrivato in Italia a fine anni 90 nella traduzione di Maria Nadotti e di recente riedito (Tamu, 2020), oltre ad articoli e conferenze che hanno aperto gli occhi o cambiato la vita di tante persone, le hanno fatte sentire meno sole, le hanno sostenute, accompagnate, attrezzate teoricamente, fortificate in percorsi di apprendimento, di trasformazione, di attivismo sociale, di guarigione.
IN BELL HOOKS, infatti, teoria e guarigione erano connesse: «Sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza: il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo intorno a me e nel mio intimo. Più di ogni altra cosa desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione». Tante persone sono giunte a bell hooks per guarire le ferite inferte loro dal sessismo, dal razzismo e dal classismo, bisognose di comprendere il perché di tanto male e come tentare di curarlo, come sopravvivere, come intraprendere un cammino di cambiamento a partire dal margine.
Per bell books, il margine non è solo un luogo di pena ma anche e soprattutto un luogo di resistenza, uno «spazio di possibilità e apertura radicale». La sua idea di margine non riguarda il ripiegarsi identitario in una compiaciuta marginalità ma la responsabilità e l’impegno etico che tocca a chi sta «là dove la profondità è assoluta». Nelle sue pagine, l’esperienza biografica si fa teoria: la violenza domestica, l’orrore di uno stupro, l’afflizione di fronte a un’immagine cinematografica stereotipata, la fatica delle incomprensioni tra bianche e non bianche in contesto militante trovano un nome, una spiegazione, un quadro interpretativo, delle categorie di analisi, la possibilità di una presa di distanza e la prospettiva di una trasformazione.
CAPIRE, analizzare, teorizzare per spezzare le catene e cambiare la realtà. Questa è la teoria per bell hooks, una «pratica liberatoria», come nel titolo di uno dei suoi saggi di recente raccolti in Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà (Meltemi, 2020). Per questo quando la pandemia ha costretto all’isolamento in casa, c’è chi è andata a risfogliarsi il saggio «Casa. Un sito di resistenza» in Elogio del margine dove lo spazio domestico diventa un sito politico suscettibile di critica in termini di rapporti di forza e di lotta di liberazione.
Da casa si lavora e si subisce sfruttamento, in casa si perpetua violenza patriarcale e violenza capitalista e dunque, perché la «casa» sia davvero tale, essa va pensata come «sito primario della sovversione e della resistenza», dove connettere il dentro e il fuori e ripensare un sistema di valori.
Era nata nel 1952 a Hopkinsville, in quello stesso Kentucky dove era tornata a insegnare nei primi anni 2000 al Berea College, il primo college interrazziale del Sud. Non uno di quei campus blasonati della Ivy League con rette stellari, bensì un work college a cui si accede con borse di studio e lavoro dedicate esclusivamente a una popolazione studentesca meritevole ma non abbiente. Lì, lo scorso autunno è stato aperto un centro che porta il suo nome dedicato agli studi femministi in un’ottica antirazzista poiché, come lei stessa ha insegnato, la gerarchia di genere è anche una gerarchia razzista.
Il suo nome di battesimo era Gloria Jean Watkins ma aveva scelto quello pseudonimo minuscolo come atto di rivolta verso l’egocentrismo autoriale e di omaggio a un continuum matrilineare avviato dalla bisnonna materna Belle Blair Hooks e proseguito con la madre Rosa Bell Watkins. Questo tributo alle ave nella scelta di uno pseudonimo non è solo una pratica femminista in voga negli anni 60-70 ma anche un gesto intellettuale e politico che dà visibilità e voce a esseri umani rimasti inascoltati, invisibili, cancellati dalla storia.
Come lo fu Sojourner Truth, la schiava liberata a cui hooks si ispira quando nel 1973, ancora studente, scrive Ain’t I a Woman. Black Women and Feminism, pubblicato solo nel 1981, un’analisi del dominio bianco e borghese che, come sottolinea Nadotti nell’introduzione di Elogio del margine/Scrivere al buio: «spacca il fronte apparentemente compatto del neofemminismo statunitense degli anni 70 e infrange con parole fertili e audaci il silenzio e la tacita sottomissione che rendevano le donne nere invisibili tra gli invisibili».
CRESCIUTA in un contesto rurale e agricolo, hooks è parte di una generazione che deve imparare a essere libera e trova una via nell’istruzione. Così ricorda in Insegnare a trasgredire: «Per i neri, l’insegnamento – l’educazione – era fondamentalmente un atto politico, perché radicato nella lotta antirazzista. In effetti, le scuole elementari per neri sono diventate il luogo in cui ho sperimentato l’apprendimento come rivoluzione. Quasi tutte le nostre insegnanti alla Booker T. Washington erano donne nere, votate a nutrire il nostro intelletto per darci la possibilità di diventare persone nere capaci di usare la ‘testa’. Comprendemmo presto che la nostra devozione verso l’apprendimento e la vita della mente era un atto contro-egemonico, un gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione razzista bianca. Sebbene non definissero o spiegassero queste pratiche in termini teorici, le mie insegnanti mettevano in atto una pedagogia rivoluzionaria della resistenza, profondamente anticoloniale. All’interno di queste scuole per bambine e bambini neri, chi era considerato eccezionale, dotato, veniva trattato con particolare cura. Le insegnanti lavoravano con e per noi, per garantirci di realizzare il nostro destino intellettuale e, nel fare ciò, elevare la nostra razza. Le mie insegnanti avevano una missione». Forte di quell’esperienza, hooks svilupperà un approccio all’insegnamento vicino alla pedagogia degli oppressi di Paulo Freire senza risparmiargli critiche.
BELL HOOKS ci ha insegnato che classismo, razzismo e sessismo sono sistemi interconnessi di dominio fondati su una logica binaria oppositiva e gerarchizzante. Dunque, non è possibile una liberazione dal razzismo che non contempli anche una liberazione dal dominio maschile ed eterosessuale. Con approccio libero e interdisciplinare, ha studiato pratiche e prodotti culturali diversi, dal giornalismo alla letteratura, dalla musica pop al cinema con indimenticabili bordate a Madonna, Spike Lee o a documentari osannati come Paris is burning.
Abbiamo sempre più bisogno di leggere bell hooks anche qui in Italia dove la scuola, l’università e gli spazi della democrazia fanno i conti tutti i giorni con storie e corpi che nulla hanno a che vedere con una vecchia e opprimente idea di «soggetto universale».
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SCHEDA. Per una politica appassionata
Per le edizioni Tamu, nella traduzione di Maria Nadotti, è stato di recente pubblicato «Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata» («Feminism is for Everybody»), uscito per la prima volta nel 2000. Nella Prefazione alla nuova edizione (presente nel volume di Tamu), bell hooks dichiara il suo amore, incrollabile: «lavoro per condividere la gioia liberatrice che la lotta femminista produce nella vita di donne e uomini che continuano a operare il cambiamento, che continuano a sperare nella fine del sessismo, dello sfruttamento sessista e dell’oppressione». Dall’autocoscienza alla lotta di classe, dalla sorellanza al lavoro e alla maschilità, dal lesbismo alla riproduzione, i brevi capitoli che compongono «Il femminismo è per tutti» sono degli speciali intarsi di teoria e pratica, una miniera di spunti e sollecitazioni anche per l’oggi.
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