Cultura

Gualtiero Bertelli, le armonie solari di un cantastorie

Gualtiero Bertelli, le armonie solari di un cantastorieUna foto di Gualtiero Bertelli

Memoria «Venezia e una fisarmonica» di Gualtiero Bertelli per Nuova Dimensione. Il conflitto di classe nel secondo dopoguerra in musica. Dalla Giudecca a «Nina», una delle più belle ballate del secondo dopoguerra

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 10 febbraio 2015

«Mia mamma diceva sempre che ero nato roverso, che fassevo tuto el contrario de quelo che dovevo far. Eccomi qua». Gualtiero Bertelli racconta come canta e come parla: con naturalezza, con semplicità e con profondità. Il suo libro, Venezia e una fisarmonica. Storie di un cantastorie (Nuova Dimensione, pp. 251, 15 euro) intreccia lingua e dialetto come le sue canzoni, per raccontarci di un’infanzia e adolescenza dentro una Venezia operaia di cui oggi resta poco o niente, di una storia musicale che comincia con una fisarmonica strimpellata e passa per l’epopea del Nuovo Canzoniere Italiano, di una scuola pubblica dove un maestro intelligente e creativo può fare tante cose importanti.

La canzone più famosa di Gualtiero Bertelli è «Nina», probabilmente la più bella di tutto il nostro canone della canzone politica e di protesta, proprio perché la politica non è sbandierata ma incarnata nei suoi effetti sulle vite, i sentimenti, i rapporti dei protagonisti. Anche questo è un libro politico, che racconta senza fare prediche tante stagioni di lotte e stagioni di crisi, con uno sguardo al tempo stesso partecipe e disincantato, con l’ironia e il senso dell’umorismo di chi, attraverso cambiamenti ed evoluzioni, crede ancora alle cose fondamentali che lo hanno formato. E anche per questo il libro si legge con un piacere non superficiale. Fra l’altro, non mancano momenti divertenti – per esempio, l’incontro con un timido e sconosciuto Fabrizio De André all’esame di compositore per la Siae; o le irresistibile canzoni anticlericali scritte con Maria Isnenghi.

Le protagoniste, come dice il titolo, sono due: la città e la musica. Giustamente, il libro comincia prima della nascita del protagonista, con la nascita delle case e dei quartieri: «All’inizio degli anni ’30 il governo fascista pensò di affrontare il problema devastante dei senzatetto con un piano nazionale di costruzione di case che, per pudore, definì “minime”». Il ragazzo che ci è vissuto canterà poi: ci vuole un bel coraggio a chiamarle case, una stanza di quattro metri con un gabinetto alla turca; «I le ciama case quei disgrassai che ga vissuo per ani da bestie, che ga ciamà case le sofite, i magaseni, i sotoscala». Ci vorrà un sindaco comunista negli anni ’50 per costruire le case popolari alla Giudecca – «Campomarte, pi o meno cinque ettari pullulanti di gente, uomini, donne, giovani, anziani e un numero infinto di bambini riversati da mattina a sera, d’estate come d’inverno, per le strade».

Da queste strade comincia la musica di Gualtiero Bertelli, figlio e nipote di operai che qualche strumento lo suonavano e che alla nascita sentenziano: «Gualtiero farà il musicista» e lo spediscono a lezione di fisarmonica all’età di cinque anni: «Metite in testa che la fisarmonica ti ga da impararla, parché chi che sa un strumento no mor de fame». Gualtiero debutterà suonano l’Ave Maria di Schubert con la fisarmonica alla festa dell’Unità di Campomarte.
La storia di Gualtiero Bertelli musicista, militante politico, autore di canzoni indimenticabili («rimo agosto Mestre sessantotto», «Stucky…») è parte della storia della cultura di opposizione da almeno mezzo secolo; l’incontro con Luisa Ronchini, la ricerca sulla canzone popolare a Venezia, l’inconro con Gianni Bosio, i concerti in giro per l’Italia… Ma Gualtiero non appartiene solo agli anni Sessanta: a dieci anni di distanza, darà un seguito a «Nina» raccontandone disillusioni e rimpianti; all’inizio del terzo millennio fa squadra con Gianantonio Stella cantando il racconto dell’emigrazione italiana anche per ammonirci sulla xenofobia e il razzismo che prendono piede in Italia e nel suo stesso Noredst; e più tardi ancora riscopre le figure dei cantastorie antichi e canta ballate nuove su storie del Novecento veneto e italiano, sconosciute, marginali e necessarie.

In mezzo, c’è il suo vero mestiere: quello di maestro elementare, che sceglie, negli anni di fermento nella scuola, del Movimento di Cooperaizone Educativa, di andare a insegnare nella roccaforte operaia di Mira e scandalizza il provveditorato presentandosi in jeans e maglietta, e fa i conti con i doppi turni, con il travaglio della scuola media unica, con la difficoltà di dare la parola a bambini che non ci sono stati abituati… «L’altro gioro Luciano non aveva la penna e il quaderno…» racconta una sua canzone: e lui è il maestro capace di accorgersi che non è per negligenza ma perché suo padre è operaio alla Mira, sono in sciopero, non hanno quasi da mangiare.

«Ho sempre amato la storia», scrive verso la fine. “Le canzoni l’accompagnano e la documentano, con continuità e con rappresentatività. Si sono cantati fatti, speranze, desideri, ma anche contrasti, dolori, inganni… Non c’è fase della nostra storia che non sia stata accompagnata da canzoni che ancora oggi la fanno ricordare, amare, rifiutare o temere”. E conclude: «Non ho mai smesso di dare concerti per raccontare storie con parole e canti. Storie che avete letto, o che forse leggerete domani».

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