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Gruppo Maelstrom, una radicale interrogazione sull’atto del filmare

Gruppo Maelstrom, una radicale interrogazione sull’atto del filmare

Filmmaker «La misura del coraggio», presentato dagli autori martedì 21 novembre alle 19.30 all’Arcobaleno Film Center di Milano -

Pubblicato circa un anno faEdizione del 18 novembre 2023

Fino a che punto il cinema può cogliere la vita? Questa è solo una tra le domande che attraversa La misura del coraggio. Un film che ne contiene molti, ad iniziare dalla modalità scelta per le riprese: ci sono tre ragazze, Chiara Toffoletto, Chiara Ferretti e Anek Speranza, la loro ricerca sulla memoria femminile partigiana nel territorio della Valsusa è al centro del progetto. E poi c’è il gruppo Maelstrom, composto da Pietro Repishti, Santiago Torresagasti, Antonio Frascella, Giada Cappa e Dino Hodic insieme a Bruno Bigoni – tra gli ideatori di Filmmaker Festival nel 1979, presenterà con gli altri autori e autrici La misura del coraggio martedì alle 19.30 all’Arcobaleno Film Center di Milano – questa collettività riprende le tre registe mentre si muovono nel territorio, parlano con donne e attiviste, si confrontano su come portare avanti il lavoro.

È una radicale interrogazione sull’atto del filmare che si sviluppa, con gli elementi che vi sono connessi: lo sguardo, la camera. Come questi ultimi influenzano il processo? Sembra talvolta che i momenti più veri e intimi siano inevitabilmente condannati a rimanerne fuori. Il loro intervento modifica la situazione, un po’ come con il principio di indeterminazione di Heisenberg. Il fallimento è sempre dietro l’angolo, a volte le occasioni vengono sprecate, non si va a fondo come si vorrebbe. Eppure, c’è anche un’altra possibilità, di ascendenza alchemica e non più scientifica, è quella di una vita potenziata che solo il cinema rende possibile.

In questo dispositivo sono diversi gli spunti ad essere evocati: lo sguardo non è neutro, viviamo all’interno di costruzioni e sembra impossibile osservarci «da individuo a individuo»; per questo si rende necessaria un’esplorazione specifica del guardare al femminile. La Valsusa raccontata dalle donne, che hanno portato avanti lotte e che continuano a farlo, a partire dai diari di Ada Prospero – moglie di Piero Gobetti, e con il suo cognome viene ricordata – che in quella valle andò a fare la resistenza, dopo la morte del marito, con il figlio ancora piccolo. Le sue parole risuonano più volte in questa ricerca, dove più che l’obiettivo conta la strada, le sensazioni provate, la qualità delle esperienze. L’incontro è fondamentale poi per tracciare una cartografia delle resistenti di oggi, come Nicoletta Dosio, che lottano non solo contro il Tav ma anche per un mondo in cui l’individuo sia meno isolato di come il sistema produttivo lo vorrebbe. Formare una comunità che comprenda anche l’ambiente, dall’orto alle maestose montagne che circondano il paesaggio. E poi la Valsusa terra di confine, dove i migranti passano per andare in Francia, traversate che sembrano non finire mai e in cui, pure, altri saperi femminili si sviluppano in una terra che si è dimostrata accogliente e solidale.

Nonostante tutti questi temi, La misura del coraggio non è un film a tesi. Centrale rimane infatti l’auto osservazione intesa come scoperta costante e messa in gioco di sé. La camera è un mezzo utilissimo allo scopo e la Valsusa, luogo caratterizzato in questi anni di lotte dall’incontro tra diversità, diventa un luogo del possibile dove poter cominciare a «misurare» – cosa succede se una scena viene girata di fretta? Come la conoscenza influenza le riprese? Come una camera piccola viene percepita rispetto ad una più grande? Interrogativi apparentemente limitati – che le tre giovani registe affrontano con una radicale attitudine al confronto, quasi una pratica di «autocoscienza filmica» – ma necessari per portare a termine quel processo alchemico, affinché il cinema sia.

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