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Gruppo di famiglia tra set e ricordi in prima persona

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Cinema L'inganno, Visconti raccontato da Ferdinando Cito Filomarino

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 4 aprile 2014

Gruppo di famiglia in un documentario. È quello che viene riunito ne L’inganno di Ferdinando Cito Filomarino che racconta uno dei film più importanti, e da sempre sottostimati, di Luchino Visconti, Gruppo di famiglia in un interno. I due film saranno presentati stasera (21.15, Spazio Oberdan di Milano) in occasione del restauro, da parte del progetto Fendi-Cinema, della pellicola del 1974. In un viaggio proustiano fra interviste di repertorio e testimonianze di oggi, L’inganno riunisce ciascun membro del «clan», dallo sceneggiatore Enrico Medioli al costumista Piero Tosi, passando per i ricordi di amici come Bernardo Bertolucci e Liliana Cavani, per illuminare di curiosità e poesia una lavorazione gravata dalle limitazioni fisiche causate dall’ictus che aveva colpito Visconti alla fine delle riprese di Ludwig.
È lo stesso Enrico Medioli a raccontare la genesi del film come conseguenza di un progetto abortito dai produttori che prevedeva l’adattamento dell’ultimo racconto breve del tanto amato Thomas Mann, L’inganno per l’appunto, feroce e parodistica novella che narra le vicissitudini di una donna sulla cinquantina, in età non più fertile e della sua breve illusione: l’incontro con un amante più giovane e l’inaspettato ritorno del flusso mestruale, ritorno alla vita. Troppo ardito forse, anche per i coraggiosi produttori dell’epoca, ma Medioli e Suso Cecchi d’Amico adattano comunque quest’elegia crudele delle mutazioni del corpo proprio al nuovo corso della vita di Visconti, immobilizzato e in grado solo di muovere la testa. Gruppo di famiglia segna, da un punto di vista filmico, una svolta notevole nello stile e nelle riprese, e di conseguenza nel montaggio, del corpus viscontiano: movimenti di macchina relativamente poco complessi, inquadrature brevi, fulminei primissimi piani. L’incontro tra un vecchio professore, un Burt Lancaster già Principe di Salina, prigioniero dei quadri alle pareti – che hanno ispirato il titolo del film – e di un passato impossibile da estinguere, e un’eccentrica famiglia dalle dinamiche trasgressive capeggiata da Silvana Mangano, si declina in un kammerspiel dove politica, sessualità e decadenza danno vita a un doppio palcoscenico: la casa gravida di mobili e opere d’arte del professore – l’«horror vacui» segnalato dalle parole di Bertolucci – e il modernissimo appartamento al piano di sopra dove si installa la nuova famiglia, e dove le ipocrisie e la disfatta aleggiano come i passi della morte che Lancaster sente nel finale del film.
Nel documentario più materiali si addensano in questo album di ricordi: il lavoro meticoloso sul set documentato da inediti backstage dell’epoca, interventi appassionati e commossi di Luca Guadagnino e di critici cinematografici come Maurizio Porro; interviste a Visconti e il ricordo delle sorelle Fendi, chiamate da Piero Tosi a vestire di pellicce lussureggianti la diva Silvana Mangano. Unico rammarico l’assenza, in termini contemporanei, pure se presente nei materiali di repertorio, di Helmut Berger, tra i pochi «sopravvissuti» – nonostante notizie sparse lo diano in estreme difficoltà economiche – e vera chiave interpretativa del film, con il suo personaggio di ex militante politico ridotto a mantenuto della ricca signora. Come anche dell’ultimo periodo di vita di Visconti, il quale negava fortemente, ma con poco successo, le assonanze autobiografiche con il vecchio e disilluso professore.

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