Griffa, ricerca orfica su tele non preparate
«La luce si rivela nella propria autonoma maestà e al contempo disegna le cose toccandole. Il colore, che è figlio della luce, e come tale si comporta, è una presenza significativa per la memoria, per la sua millenaria relazione con l’uomo, e allo stesso tempo disegna delle forme». È questa una riflessione del torinese Giorgio Griffa che data 1995. L’artista riflette sul rapporto fra tratto e colore, guardando indietro alla tradizione della pittura occidentale che vuole il disegno della forma separato e precedente al colore che lo riempie. E questo era già un rovello dell’amato Matisse. «Ma – osserva ancora l’artista – l’esperienza insegna che anche un punto è un colore». In sostanza per Griffa il colore è già un segno un ritmo una forma. E aggiunge: «Un aspetto della questione consiste dunque nel ridurre la differenza tra segno e colore ai semplici effetti fisici della larghezza di un pennello e della maniera con cui questo viene adoperato sulla tela».
Gli strumenti di lavoro di Griffa sono quelli tradizionalmente scelti per la pittura: colori in prevalenza ad acqua (acquarelli, tempere, acrilici), pennelli, tele (non preparate), carta. Inoltre le tele non sono montate su telaio. Vengono lavorate su di un piano orizzontale, e, se di grandi dimensioni, per terra, per evitare che il pigmento di solito molto liquido coli. Questa posizione permette anche un lento assorbimento del colore nelle trame. Gli effetti cromatici dipendono quindi dagli spessori variabili delle tele grezze oltre che da una certa gestualità. Un astrattismo, quello di Griffa, forgiato agli inizi degli anni sessanta, frequentando l’esperienza concretista di Filippo Scroppo. Ma il suo metodo specifico, che è arrivato dopo anni di riflessione, ha cominciato a manifestarsi orientativamente tra il 1967 e il 1968. Sebbene la linea da lui ampiamente investigata faccia pensare a un certo minimalismo analitico-razionale, in realtà il suo è un procedimento che combina insieme elementi razionali e irrazionali, apollinei e dionisiaci, poetici e scientifici.
A quell’epoca la scelta della tela non preparata, che in parte riprende la ricerca sulla materia propria di alcuni artisti dell’Arte Povera, lo porta a un’esperienza basica che rinvia a una dimensione primitiva del dipingere e del suo rapporto col segno: una sorta di ricominciamento della pittura da altri presupposti. Il suo lavoro delle origini tende all’impersonale, è segno tangibile e gravido di una memoria che travalica i limiti della soggettività. Ma quelle linee orizzontali verticali o oblique non hanno niente di formalistico. Piuttosto, osservandole nel dettaglio, esprimono un certo rigore e, attraverso la grazia di sensuali sbavature, qualcosa come un equilibrio perennemente ricercato e nondimeno sempre messo in questione, sempre interrotto.
Nelle opere di Griffa vi è un’armonia inquieta, forse per la natura stessa delle composizioni che procedono per frammenti. E tale frammentarietà, tale non-finito consente di lasciare l’opera aperta a un certo fluire della vita, un andare dal noto all’ignoto, per riprendere un’interpretazione del tema orfico caro all’artista. La fisicità dell’opera di Griffa poi si palesa, in assenza di cornici e filtri, nelle quadrettature delle tele (create dal modo in cui esse vengono ripiegate), a formare una sorta di griglia che ci fa pensare, più che a una gabbia formale, a una disciplina attraverso cui il pensiero organizza il proprio spazio di libertà.
Dopo un’ampia e lunga retrospettiva al LaM di Lille nel 2021, oggi la Francia, fino al 27 giugno, continua a celebrare questo artista al Centre Pompidou, dove Christine Macel, che già aveva fortemente voluto Griffa alla Biennale di Venezia del 2017, cura l’esposizione di 18 significative opere donate dall’artista (catalogo Éditions du Centre Pompidou, pp. 98, euro 26,00). Tali opere sono scelte in base ad alcuni dei cicli più importanti realizzati durante la sua carriera: Segni primari (anni sessanta e settanta), Segno e campo (anni ottanta), Tre linee con arabesco (anni novanta), Canone aureo (anni 2000-’10), per finire con un’opera realizzata nel 2022: la Recherche. A osservarle insieme queste opere di diverse epoche mantengono un dialogo costante con lo spazio vuoto, come a suggerire un ambito di riflessione continuo e lento. Il ritmo lineare che si instaura grazie alla ripetizione, lo spazio tra i segni e la loro interruzione, soprattutto tra le dieci opere appartenenti al primo ciclo, viene ad arricchirsi di colori più mediterranei e della grazia di ampie campiture del secondo ciclo (difficile qui non soffermarsi sull’acuta sensualità matissiana di Campo viola del 1988). E poi una sorta di ritorno all’ordine delle tre linee del terzo ciclo, ma a patto di recuperare la verità della curva, cara a Nietzsche, o meglio del movimento elicoidale che Griffa definisce arabesco, giustamente con una valenza decorativo-artistica. Per l’artista è un tema importante l’arabesco: coniuga il movimento lineare del progresso con la concezione ciclica del tempo antico, quell’avanzare della conoscenza che ritorna sugli stessi temi ma da presupposti diversi.
E così il lavoro si arricchisce di enumerazioni e, qui nello specifico, del numero aureo, come n elle tre opere del 2012 che ampliano lo spettro di possibilità conoscitive dell’arte. «Anche i numeri – scrive Griffa – possono portare al di là dei limiti della ragione.
La sezione aurea, formalizzata da Euclide sulla base di una conoscenza molto più antica, è la configurazione di un numero 1,61803398874989484820… che non finirà mai. Poiché lo consideriamo un numero decimale sappiamo che questo numero non aumenta: 1,6 non diventerà mai 1,7. Non finirà mai di allungarsi e nondimeno non aumenta. Uno scacco della ragione, o meglio, l’ingresso in una dimensione ignota: un tempo che non cessa di aumentare configura uno spazio che non aumenta. La memoria partecipa a qualcosa di simile».
E il tema della memoria è l’omaggio a Proust dell’ultima grande opera esposta. Griffa qui utilizza 24 tele di tarlatana, materiale che aveva usato per l’opera Dioniso esposta alla Biennale di Venezia del 1980. La sovrapposizione delle garze trasparenti lascia intravedere una polifonia di linee danzanti tra strati leggeri come tutù di ballerine (analogia calzante della Macel). Le lettere, gli arabeschi diventano segni che si moltiplicano, si confondono, si cancellano, si prolungano, e mimano così, sempre seguendo il filo della poesia, quel labirinto, quel flusso e riflusso di ricordi, di onde emozionali che tramano un’opera così imponente e così singolarmente leggera e trasparente come La Recherche proustiana.
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