Greta Van Fleet, l’invasione delle ultracover
Note sparse Si discute sull'artificiale risurrezione rock della band, che torna con un nuovo disco: «The Battle At The Garden’s Gate»
Note sparse Si discute sull'artificiale risurrezione rock della band, che torna con un nuovo disco: «The Battle At The Garden’s Gate»
La storia si ripete due volte: la prima come Led Zeppelin, la seconda come Greta Van Fleet. Oltre il sarcasmo delle parafrasi c’è però un discorso ben più articolato sul concetto di autenticità e sull’artificiale resurrezione del rock. Dopo l’ascolto degli ultimi singoli dei fratelli Kiszka la critica si era affrettata a indicare le nuove cuciture del Frankenstein di Frankenmuth, Michigan: ecco brandelli dei Rush e dei Cream, ecco le fattezze di Bowie, Queen, Elton John (esibite nel video di Heat Above). Ancora manierismo, insomma, ma con una paletta più ricca. Poi esce Broken Bells: fermi tutti, ritorna il gene originario esibito quasi con sfacciataggine. Siamo al microplagio: di Stairway To Heaven vengono estratti i principi attivi, dall’arpeggio discendente di settima maggiore (0’10”) alla struttura del solo di chitarra, con immancabile controcanto alla Plant. Che poi anche dal manierismo possono venir fuori risultati egregi, se ci si concentra sull’opera in sé; così è per alcuni episodi di questo The Battle At The Garden’s Gate, titolo che riprende il lessico epico-guerresco del precedente Anthem Of The Peaceful Army (anche questo aspetto si presterebbe a un’esegesi rock). I Kiszka nel frattempo sono cresciuti, si sono trasferiti a Nashville e hanno inciso a L. A. con il produttore Greg Kurstin.
E LA PRODUZIONE, elemento non certo neutro in questa operazione, è inappuntabile: un Frankenstein figlio di pregevole chirurgia estetica. Muovendosi a distanza di cinquantennio sulla griglia del rock, i Greta Van Fleet ricalcano anche l’idioma prog, in brani come The Weight of Dreams, mentre Heat Above si candida a monopolizzare l’etere radiofonico primaverile. Peccato che non ci si possa limitare all’analisi formale, costretti a interrogarci su questioni di originalità solo sfiorate dal caso Måneskin. Sono sufficienti pochi stilemi esteriori per dirsi rock? Può esserci linguaggio senza contesto? Certo, sono domande che avremmo potuto porre anche «all’epoca dei fatti», di fronte a tante produzioni modellate sui canoni mainstream. Forse la qualità migliore di album come questi è proprio l’appello alla ricezione, costretta a chiedersi se sia il mittente o il destinatario il primo a rinnegare l’originalità. Siamo al continuo refresh dei parametri di autenticità, tributo, plagio: il dito preme F5, il piede batte il tempo. Tutto molto bello, The Song Remains The Same.
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