«La parola è una linea cui diamo significato. Il nome identifica. La grafia è una veste del sé. Nel mio lavoro vesto la superficie del suo nome. I punti aurei parlano del mio ritorno emozionale. È una porta per entrare nella poesia del vivere».

È COSÌ CHE GRETA SCHÖDL si presenta ai visitatori della sua personale Il segno traccia del nostro vissuto, a cura di Silvia Evangelisti e allestita alla galleria Labs contemporary art di Bologna (fino a sabato 25). L’artista, classe 1929, di origini austriache, si è stabilita sotto le due torri quasi settant’anni fa dopo aver studiato all’Accademia di arti applicate di Vienna. Nella sua pratica ha sperimentato molte tecniche, dal disegno alla grafica, dalla pittura alla performance. Il segno e la memoria sono i fili conduttori dei suoi lavori, a partire dai materiali scelti, segni di un passato che Schödl riscrive, come sulle vecchie federe di canapa ricamate della nonna su cui traccia in gotico «federa aperta» come un mantra.
Sulla tela una punteggiatura dorata la rende simile a uno spartito musicale in cui le parole reiterate perdono il loro significato per acquisirne uno nuovo. Sulle pagine di antichi libri di botanica imprime tratti a china e foglia d’oro. L’oro è un elemento che porta con sé dagli anni di Klimt e della Secessione viennese, la necessità di capire sé stessa e il mondo li eredita dagli studi di Freud. La mano dell’artista è un sismografo di emozioni. Il suo linguaggio visivo rende astratti lettere e simboli, Schödl applica geometrie e parole su mappe, foglie, marmo.
«Il mio lavoro ha molto di femminile: il ricamo, il rapporto con gli antenati, il vissuto degli oggetti. Mi sono sposata in Italia, sono diventata madre e per nove anni ho quasi interrotto la mia pratica – racconta –. Mi sono ritagliata spazio per il lavoro artistico nel tempo che rimaneva dalla cura dei bambini e della casa (Schödl è stata la moglie di Dino Gavina, designer, editore, imprenditore bolognese, ndr). Come artista donna ho sempre avuto restrizioni, a Bologna negli anni ’70/80 ce n’erano poche. Dopo Vienna, in Italia ho dovuto ricominciare».

«TUTTO ARRIVA DA LONTANO – spiega ancora –, già nell’infanzia cercavo le cose nascoste, ogni oggetto ha una sua vita. Ho sempre allargato la ricerca su quello che un oggetto o un vecchio libro porta con sé. Ho lavorato con la natura, sono nata e vissuta in campagna, ero sempre alla ricerca delle cose dietro le cose. Mio padre mi insegnava l’attenzione verso ciò che è piccolo: si può fare un viaggio anche in due metri quadrati, c’è molto da scoprire. Ho fatto performance in cui mettevo il focus su un dettaglio. Ho fatto ricerca sulla mia pelle, sul dito, elaborando le mie impronte. Il primo universo (1980) sembra una mappa stellata, invece è il mio capezzolo, il primo universo per un bambino. Ho realizzato un’opera con le foglie cadute da un albero su cui ho applicato un segno dorato, ognuno poteva comprarne una. L’albero ha unito le persone, questo ci ricorda che anche noi siamo come una foglia, veniamo da un albero genealogico, la famiglia, portiamo un messaggio e lo lasciamo come le foglie al vento. È una questione vibrazionale, tutto vibra nell’universo, si sceglie qualcosa verso cui si ha una sintonia. La mia è una ricerca in avanti, in espansione, ma che affonda nelle origini. Per me il tempo non esiste, quello che sono oggi sono stata già da piccola, tutte le mie impronte sono solo passi in questa direzione».

SULL’USO DEI SEGNI, poi, aggiunge: «Utilizzo soprattutto il gotico perché è stato il primo impatto con il linguaggio. La scrittura forma l’individuo. Uso la parola perché ogni linea esprime qualcosa. La ripetizione continua della parola non è un’informazione unilinguistica, io distruggo la parola, la uso solo come base per creare un tessuto in cui la scrittura fa da trama, i punti luce da ordito su cui applico l’oro. Come lo spartito della mia frequenza emotiva, psichica o elettrica, da leggere non come un alfabeto, ma da percepire come frequenza dell’interno. Siamo esseri oscillanti, abbiamo un’impronta digitale e una frequenziale».
Schödl è convinta che «siamo un involucro in cui i genitori mettono dentro credenza, religione, modo di pensare. È il pian terreno su cui costruiamo la casa che diventiamo. La terra in cui nasciamo la portiamo sempre con noi, ognuno ha la sua storia e non si cancella, come non si può togliere il pian terreno di una casa e costruirla per aria. Vienna è la porta verso l’Oriente, dentro di me porto i pensieri e la ricerca di mio padre. Per quindici anni ho scritto i miei sogni ispirata da Freud, e ne ho fatto un progetto, volevo sapere chi sono, conoscere questo involucro e cosa ci avevano messo dentro. Non si capisce mai fino in fondo ed è un bene, così la ricerca continua».
Ora Schödl è impegnata a catalogare tutto il suo lavoro, «a 94 anni si deve pensare a cosa succederà dopo». E, con una metafora, afferma di non aver mai sposato nessuna direzione né politica né religiosa, «voglio essere libera, non stare nell’ovile del pensiero, di organizzazioni politiche o club, ma in aperta campagna».