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Greta Garbo, il mito e l’anima

Greta Garbo, il mito e l’anima

Il libro «Garbo», di Robert Gottlieb, da Il Castoro

Pubblicato più di un anno faEdizione del 24 giugno 2023

Il mito di Greta Garbo ha colpito ancora una volta? Si direbbe di sì quando fin dalle prime pagine del libro appare la fotografia di Clarence Sinclair Bull con il volto sopra il corpo della Sfinge. Invece no, Garbo di Robert Gottlieb, appena uscito da Il Castoro (trad. Anna Carbone, pp. 448, euro 28,00), è una biografia ricchissima di aneddoti e insieme il commosso omaggio di un ammiratore americano. Nato nel 1931 – editor di «The New Yorker», si è occupato di Charles Dickens e Sarah Bernhardt – era troppo giovane per aver visto i suoi film: «Non avevo capito fino in fondo cosa fosse sullo schermo e quanto avesse stravolto l’industria del cinema statunitense e il suo pubblico. Quindi, come al solito, a spingermi a scrivere di lei è stata la curiosità».

Quando il 5 luglio 1925 Greta Garbo e Mauritz Stiller arrivano nel porto di New York dopo una lunga traversata, la ventenne attrice svedese ha al suo attivo un paio di film, I cavalieri di Ekebù, diretto l’anno precedente da Stiller, e La via senza gioia di Georg W. Pabst, girato in aprile all’ombra di Asta Nielsen, la grande diva danese. Il successo del film di Stiller richiama sul regista e sull’interprete l’interesse di Hollywood e a Berlino firmano il contratto con Louis B. Mayer, il tycoon della Metro-Goldwyn-Mayer in cerca di nuovi talenti.

Dopo un paio di mélo senza storia, è La carne e il diavolo (1927) che impone Greta Garbo e John Gilbert come la coppia del momento ad alto tasso erotico. Clarence Brown, il regista che avrebbe lavorato con l’attrice altre sei volte, ricorda una delle prime scene in cui si capiva il coinvolgimento sentimentale (sessuale?) dei due protagonisti: «Fu la cosa più incredibile che si fosse mai vista. Quando abbiamo girato quella prima scena d’amore. Be’, era come se non ci fosse nessun’altro. Quei due erano in un mondo tutto loro. Gridare: «Ciak, si gira» sembrava un’intrusione».

La relazione Garbo-Gilbert diventa subito la storia più clamorosa di Hollywood dopo il matrimonio di Mary Pickford e Douglas Fairbanks. È naturale che la Metro voglia fare il bis. Il nuovo film sarebbe stato una versione moderna di Anna Karenina, che per andare sul sicuro s’intitola Love (1927). Negli ultimi anni del muto, l’attrice fa in tempo a interpretare altri sei film, in cui il look che Adrian, il grande costumista, inventa per lei fa dimenticare almeno in parte le logore convenzioni del melodramma e i ricatti sentimentali della cattiva letteratura.

Come avrebbe parlato la Garbo? Se lo chiedono un po’ tutti nel momento del decollo del sonoro, ma Anna Christie (1930), che la diva con la sua voce roca profonda, di contralto, dimostra che aveva superato brillantemente anche questa prova. Dopo le pellicce e i gioielli sfoggiati in tanti altri film, qui la protagonista, comunque bellissima nella gonna e nel maglione da pochi soldi, recita senza enfasi le battute del dramma di Eugene O’ Neill.

Lanciato con lo slogan «La Garbo parla», il film è il campione di incassi dell’anno. Anche Romanzo (1930), La modella e Cortigiana, entrambi del ’31, vanno bene al botteghino, ma Mata Hari (1932) ottiene il maggiore successo commerciale dell’intera carriera della Garbo. Nonostante il romanzo di Vicki Baum sia più che modesto, Grand Hotel (1932) – in cui si intrecciano i destini di Grusinskaya, una ballerina russa in declino (Greta Garbo), un aggressivo industriale (Wallace Beery), un’intraprendente segretaria (Joan Crawford), il barone von Gaigern ridotto a fare il ladro d’albergo (John Barrymore) – è un film di grande interesse. «Se volete vedere com’era il fascino dello schermo», scrive Pauline Kael, «e che cos’erano in origine le stelle, forse questo ne è l’esempio migliore di tutti i tempi».

Quando si comincia a pensare di affidarle il ruolo della più famosa figura storica della Svezia, Greta si butta a capofitto sul progetto. S’impone per scegliere il regista, lo statunitense di origine armena Rouben Mamoulian, e il protagonista, per il quale si ricorda del suo partner John Gilbert, da tempo in declino. In vacanza in Svezia, visita tutti i luoghi della vita di Cristina, mentre la Mgm si prodiga per assicurare la precisione dei dettagli storici. La regina Cristina (1933) è il film in cui la Garbo si immedesima di più con la protagonista, nella predilezione per gli abiti maschili, nella rimozione del matrimonio: «Voglio morire scapolo». Mamoulian fu il primo regista hollywoodiano a sottomettere la diva a un progetto estetico forte e al suo metodo di lavoro e di ripresa. La sequenza più emblematica è quella in cui dice di essere «stanca della propria immagine»: «Sono stanca di essere un simbolo, un’astrazione, desidero essere una persona». Ma la scena cult, una delle più celebri della storia del cinema, è quella in cui la regina che ha deciso di abdicare se ne sta in piedi sulla prua della nave che la porta in esilio, con lo sguardo fisso in avanti, i pensieri e i sentimenti impenetrabili, il volto ridotto a una maschera.

Margherita Gauthier (1936) di George Cukor è considerato da molti critici il capolavoro della Garbo, il film in cui sembra più a suo agio. Cukor, il noto women’s director, apprezza l’erotismo e l’audacia con cui l’attrice interpreta Margherita, evitando i toni lagnosi di tante altre versioni cinematografiche. Non aveva simpatia per Robert Taylor, il giovanissimo Armand, di cui dice a un’amica: «Così bello, e così sciocco». Durante la lavorazione, muore di polmonite a trentasette anni Irving Thalberg, il creativo direttore di produzione che ammirava profondamente l’attrice e sapeva come affrontare le sue stravaganze. La stessa Garbo è molto toccata dalla morte del produttore, che tutti considerano una grave perdita per l’industria cinematografica. Il film comunque va in porto e la storia di Margherita, di Armand Duval, l’intervento del padre del giovane, della morte di Margherita fra le braccia di Armand ripropone con grande sensibilità gli ingredienti imbattibili di La signora delle camelie di Alexandre Dumas fils.

Ninotchka (1939) di Ernst Lubitsch, sceneggiato da Billy Wilder, Charles Brackett e Walter Reisch, è la prima commedia della Garbo, che si rivela una straordinaria attrice brillante. Gli agenti sovietici in missione a Parigi per vendere i gioielli imperiali, gli irresistibili Buljanoff, Iranoff e Kopalski, cedono quasi subito alle lusinghe del capitalismo, irretiti da Melvyn Douglas, il raffinato truffatore e gigolo, mentre la compagna Greta Garbo, l’inflessibile commissaria Nina Yakushova, ci mette di più a lasciarsi catturare dal fascino della ville lumière. Alla fine anche lei perde la testa, ma non l’improbabile cappellino che ha adocchiato fin dall’inizio nella hall dell’albergo. S’innamora, ride, si ubriaca, cade fucilata dal botto di un tappo di champagne dopo la celebre battuta: «Compagni! Proletari del mondo! La rivoluzione è in marcia. Oh, lo so, pioveranno le bombe, le civiltà sprofonderanno, ma non subito, vi prego! Aspettate, che fretta c’è. È il nostro momento di essere felici!».

Nel 1929, giusti dieci anni prima, a una festa in casa di Lubitsch, Greta aveva incontrato Salka Viertel, moglie del regista tedesco Bertolt Viertel, destinata a restare la sua migliore amica per il resto della vita. La Garbo le sembra, fin da quella prima serata, «intelligente, semplice, completamente priva di affettazione, con un gran senso dell’umorismo». Nel salotto dei Viertel a Santa Monica arrivano un po’ tutti gli europei di passaggio. Ci si poteva incontrare Thomas e Henrich Mann con le mogli, Stravinskij e Schönberg, Max Reinhardt, Ejzenštejn, Murnau, Arthur Rubinstein, Christopher Isherwood, Bertolt Brecht. Nell’ambiente cinematografico Salka era molto nota. Se non aveva un buon rapporto con Mayer, andava però molto d’accordo con Thalberg. Grande sostenitrice del progetto di La regina Cristina, ne firma con altri soggetto e sceneggiatura.

A casa Viertel conosce anche Mercedes de Acosta, la più famosa lesbica dichiarata del tempo. Se da parte di Mercedes è amore a prima vista, sembra che Greta ricambi. Tra una passeggiata lungo la spiaggia e un paio di settimane in un cottage in un’isoletta a Silver Lake nella Sierra Nevada, fra una litigata e una riappacificazione, la storia va avanti per parecchi anni. Almeno finché Mercedes non decide di scrivere la propria autobiografia, in cui evidentemente qualcosa infastidisce la diva, che chiude per sempre con lei. L’altra storia importante è più tardi quella con la baronessa Cécile de Rothschild, che l’accompagna ovunque e si occupa di ogni sua necessità. Assieme fanno numerosi viaggi, insensibili alle chiacchiere maliziose degli amici comuni.

E gli uomini? La relazione più lunga è quella con Cecil Beaton, il famoso fotografo inglese dell’alta società, sul libro paga di Vanity Fair e di Vogue. Bello, gay, elegante, snob, dal ’30 in poi la sua ossessione per la Garbo dura parecchi decenni durante i quali non smette mai di chiederle inutilmente di sposarlo. Nel ’37 conosce il celebre direttore d’orchestra Leopold Stokovski, che le dice subito che erano destinati a una grande storia d’amore. In realtà, il loro viaggio in Italia, tra Ravello, Capri, Napoli, e poi, attraverso l’Europa, fino in Svezia, più che una storia sentimentale sembra una storia turistica. Greta è costretta a concedere un’intervista ai giornalisti che danno loro la caccia, in cui smentisce ogni intenzione di sposarsi, anche perché non ha ancora trovato l’uomo giusto. Come era apparso all’improvviso, Stoki scompare per sempre. Poi è la volta di Gayelord Hauser, un popolare dietologo che modifica il suo modo di mangiare, e la aiuta a mettere in ordine gli affari presentandole il suo consulente finanziario. Nel ’41 conosce Erich Maria Remarque, il noto romanziere, con il quale va in giro per gallerie d’arte, va a cena e a passeggio con il cane. Greta gli consiglia di ridurre l’alcol, lui la contraccambia dedicandole una paginetta del suo diario. Decisamente più importante l’incontro con George Schlee, che sta al suo fianco dal ’42 al ’64. Un uomo di mondo, che l’accompagna dappertutto, le pianifica la vita, la protegge. Greta sembra aver bisogno di essere accudita, se non come una bambina, come una persona la cui crescita psichica non è andata fino in fondo. Il rapporto con Adrian era tale che una volta, entrando nel suo atelier, gli salta in spalla continuando a dire: «Cavalluccio, cavalluccio». L’altro aneddoto non è meno curioso e riguarda i troll che un amico un giorno ha trovato sotto il letto di Greta, tutti messi in fila uno accanto all’altro.

Il paradosso di Greta Garbo è che dopo il trionfo di Ninotchka, il flop di Non tradirmi con me (1941) l’induce a abbandonare il cinema a soli trentasei anni. Il film esce otto giorni dopo Pearl Harbour, nel pieno della guerra. Il mondo sta cambiando. I mercati europei – nei quali le quotazioni della Garbo erano sempre state le più alte – si erano dissolti. Non annunciò mai che si stava ritirando, né forse lo pensò mai. Nel dopoguerra avrebbe ripreso a lavorare per uno dei tanti progetti che continuavano a sottoporle. Ma le cose andarono diversamente. Nel ’53, venduta la casa di Los Angeles, acquista un appartamento a New York, al 450 della Cinquantesima Strada Est, tra la First Avenue e l’East River, dove avrebbe abitato fino al giorno della morte.

La vita della Garbo dopo il suo ritiro dal mondo del cinema non è affatto quell’esistenza solitaria e patetica che le è stata attribuita. Si vede spesso con Jessica Aragonette, l’ex cantante radiofonica di cinque anni più vecchia di lei. Ma l’amicizia più importante è quella con Jane Gunther, di una decina d’anni più giovane, la vedova di un giornalista di successo. Pranzano insieme, assistono a spettacoli, vanno in giro per compere. «Era senz’altro la donna più bella che abbia mai visto o anche solo immaginato», ricorda Jane. «I suoi lineamenti erano perfetti, ma il miracolo della sua bellezza veniva da qualcosa di interiore. Vi era una strana malinconia in lei che ti induceva a credere che il suo meraviglioso viso rivelasse il segreto della sua vita, le gioie e i dolori. Era sensibile e divertente, beffarda e piena di spirito. So che attribuirle un piacere infantile e clownesco per tutte le cose smentisce la sua immagine pubblica, ma era una parte enorme di lei». Inciampando nell’aspirapolvere in casa, Greta ne riporta una slogatura alla caviglia che limita molto la sua proverbiale capacità di camminare per ore come faceva prima. Dopo un lieve attacco di cuore, il problema ai reni peggiora rapidamente, costringendola a recarsi in limousine tre volte alla settimana al New York Hospital per la dialisi. Il 15 aprile 1990, la domenica di Pasqua, muore a pochi mesi dall’ottantacinquesimo compleanno. Gray Reisfield, sua nipote e erede, è con lei fino alla fine.

Vengono in mente le considerazioni con cui Robert Gottlieb apre il suo splendido libro: «Amava il suo lavoro, ma non sopportava tutto quello che vi ruotava attorno, e non riuscì mai a comprendere davvero che cosa le fosse successo. Era un fenomeno, una sfinge, un mito, ma anche una ragazza svedese di campagna, priva di istruzione, ingenua e sempre in guardia. Si allontanò dal mondo a trentasei anni, ma il mondo non si allontanò da lei, anche se lei trascorse una cinquantina d’anni o giù di lì a nascondersi da esso. E ancora si nasconde: nessuno saprà mai che cosa succedeva dietro quegli occhi straordinari. Lo sapeva soltanto la macchina da presa».

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