Imponente nei suoi quasi due metri di altezza, sfoggia l’immancabile berretto che ha cominciato a portare per via delle cicatrici dovute un intervento: «Stavo cantando in un jazz club di Denver e lì faceva così freddo. Indossavo cinque strati di vestiti e questo copricapo. Era molto comodo e pensavo che mi andasse bene. E la gente diceva, oh guarda, è il ragazzo con il berretto. Così è diventato una cosa imprescindibile…». Nella cavea dell’auditorium di Roma, ospite della rassegna Roma Summer Fest, il clima è decisamente più mite e il cappello si accompagna a un attillatissimo completo color carta da zucchero. La voce è a solito potente ma estremamente duttile, resiste perfino a un raffreddore incipiente che «anestetizza» con trucchi del mestiere e miracolose tisane. Ad accompagnarlo un quintetto prodigioso formato da Chip Crawford, Tivon Pennicott, Emanuel Harrold, Jahmal Nichols e Ondrej Pivec, che spesso e volentieri si producono in assoli capaci di incantare il pubblico capitolino.

SHOW STRINGATO – un’ora e venti compreso il bis – ma intenso dove ha messo in mostra come si suol dire «l’argenteria», con i suoi classici consolidati estratti da una discografia piuttosto corposa, da Laura passando alla maestosa 1960 What? alle sofisticate nuances di No Love Diying fino alle note sospese di Liquid Spirit, coinvolgente gospel. Gregory Porter ha consolidato nel tempo un successo che l’ha portato dai club americani ai teatri «sold out» in tutto il mondo. E rispetto a molti suoi colleghi, il baritono nato e cresciuto in California prima di trasferirsi nella grande mela, è molto parco nella scelta degli standard, preferendo invece lavorare su materiali originali e su testi che attingono a storie di «normale» quotidianità e su musiche ispirate e solidi arrangiamenti, che si muovono su territori jazz prendendosi svariate licenze in direzioni marcatamente soul. Ma nelle sue canzoni testi solo apparentemente «normali» nascondono molto altro, come ricorda lui stesso in un’intervista rilasciata a questo giornale qualche anno fa: «In Consequence of Love dico che ’lotterò per diventare il tuo amore, non importa quello che accadrà’. Ora, queste parole suonano romantiche, ma dentro c’è della politica: perché chi è che ha la necessità di battersi per il diritto di essere l’amore di qualcun altro? Le vie dell’amore sono piene di ostacoli, può essere magari qualcuno che è molto distante da chi ama per condizioni economiche».

E rispetto a molti suoi colleghi, l’artista californiano, è molto parco nella scelta degli standard, preferendo invece lavorare su materiali originali e su testi che attingono a storie di «normale» quotidianità

E SPECIFICA: «Se dico delle cose in maniera più indiretta, non è per contrabbandare un messaggio, ma perché sono un artista, cerco la poesia in una canzone, non cerco di camuffare un contenuto, è semplicemente il mio stile, la mia maniera di esprimermi. I miei sono testi nello spirito del jazz, dove questo approccio c’è molto: Billie Holiday non è solo Strange Fruit, ma l’idea, il sentimento, nelle sue canzoni li senti. A volte nel jazz ti rendi conto di certi significati solo quando scopri chi ha scritto quella cosa, quale era la situazione che aveva intorno quando l’ha scritta…». Da Water – il suo splendido album d’esordio – sono passati ormai dodici anni, che la Verve – l’etichetta con cui incide – ha deciso di celebrare negli scorsi mesi con un doppio album Still Rising – the Collection, che contempla tutti i pezzi più celebri, con l’aggiunta di duetti e inediti e dove – ancora una volta – dimostra di essere la risposta naturale che mescola il soul, il gospel e il blues, strizzando l’occhio anche al pop. Con incredibile classe.