Alias Domenica

Greene, spy story, slealtà e ricerca ultima

Greene, spy story, slealtà e ricerca ultimaJohn Stezaker, Mask XIV, 2006, Londra, Tate Gallery

Narrativa britannica Uscì nel 1978 dopo lunga gestazione, ambientato nella sede dei Servizi Segreti, reparto Sudafrica: «Il fattore umano», ora da Sellerio, è una riflessione sui risvolti metafisici del poliziesco

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 26 luglio 2020

Gli inglesi hanno sempre creduto nella ritualità ( non diversamente dagli straordinari gatti di casa) e ne hanno dato ampia prova in tutte le epoche. Gesti vistosi ma insostanziali, che si tratti della monarchia, della fede anglicana o cattolica, del comunismo o della sua condanna, della fine strategia dell’ upper class per proteggere i secolari privilegi o degli irosi riots popolari che tentano di assimilarli più che distruggerli. Per queste e altre ragioni, una solida ed efficiente spy story non può che essere inglese, ispirata da un ovattato pomeriggio di pioggia, a Londra, nella sede del SIS (M16), vicino al Vauxhall Bridge che «per la parte affacciata sul Tamigi, ricorda un tempio maya», come osservò Paolo Bertinetti nel suo «Dossier George Smiley» in appendice a La talpa di John Le Carré (aka David Cornwell) del 1974 («Oscar» Mondadori 2019). Dal 1961 al 2017 sono nove i romanzi di spionaggio che hanno reso famoso Le Carré e il suo eccezionale agente segreto, Smiley appunto, il più brutto mai assunto da Sua Maestà: «Sembrava proprio un rospo. Piccolo e tarchiato, con degli occhiali rotondi dalle lenti spesse che gli ingrandivano gli occhi in modo sproporzionato». Ma è misteriosamente investito dal fascino riflesso della bellissima moglie che sempre a lui fa ritorno.

Ritualità delle forme
Nel 1978 Graham Greene pubblicava, dopo una lunga gestazione iniziata ben dieci anni prima, Il fattore umano, ora riedito da Sellerio nella nota traduzione di Adriana Bottini, arricchito da uno scorcio storico di quel periodo – perché di romanzi storici ormai si tratta – di Enrico Deaglio («Il fattore Greene») e da una postfazione di Domenico Scarpa («La memoria», pp. 460, € 15,00). Sono gli anni della guerra fredda tra il blocco sovietico e quello occidentale, in cui i relativi sistemi di spionaggio, contro-spionaggio, e contro-contro spionaggio operavano affinando le proprie strategie; identici quindi prevedibili ma non meno pericolosi, specialmente quelli inglesi in concorrenza anche con i violenti «cugini» americani. Sotto Elisabetta Tudor il potente sistema poliziesco aveva arruolato come spia il drammatico Christopher Marlowe, sotto Carlo II la versatile Aphra Behn – gente di teatro, adatta a doppi ruoli. Coperta dalla ritualità che le forme e l’eccezionalità del loro servizio garantivano, si celava quella che Le Carré chiamò crudamente ‘la talpa’, ossia l’agente doppiogiochista, scoperta dal suo socratico Mr Smiley. Una talpa che vive sottoterra, mezza cieca, può avere una pelliccia iridescente come le ali di una farfalla, e un bambino, un bastardino nero di grande aiuto nella ricerca della verità, «parla delle spie come ai vecchi tempi i bambini parlavano delle fate».
La ‘talpa’ di Greene – che fa l’osservazione di cui sopra – è l’ansioso Maurice Castle inglese, suo padre adottivo, un «mezzo credente», come lui stesso si definisce, sia in un comunismo umanitario sia in un cattolicesimo terzomondista, sposato a una bella bantu che non svetta come l’impareggiabile moglie di Smiley, ma al suo arrivo gli offre un calice di conforto, un doppio, quadruplo, J&B. Non dorme facilmente Castle, e si avventura nel sonno come un eroe di Allan Quatermain. Nel cuore del continente nero vorrebbe trovare la sua patria: «una città che lo accettasse come cittadino ma senza chiedere alcun pegno di fede, non la Città di Dio, e neppure di Marx, ma la città chiamata Pace dello Spirito». Di una certa età, bruttino quasi quanto Smiley – forse per una tacita sfida a Le Carré – Castle, di poche misurate parole, svolge un lavoro di routine nella sede centrale dei Servizi Segreti, reparto Sudafrica, assieme al giovane Arthur Davis che invece si fa notare per la sua goffa presenza. Improvvisamente la noiosa routine ufficio-pranzo-casa è rotta dal sospetto di una fuga di notizie segrete convogliate nel campo nemico. «Ci sono talmente tante regole, che a volte ne viene trascurata qualcuna. Fa parte della natura umana». Inizia la segreta indagine dei due «controllori», un vecchio nobiluomo e un cinico dottore; appena un brivido investe i consueti riti di classe, la caccia, le cene nella grande dimora di campagna, le discussioni private tra i due, in club esclusivi. Così, tra un bicchiere di Porto e l’altro, si trova il colpevole, si emette sentenza di morte, ovviamente meno dolorosa possibile. Il condannato è l’innocente Davis, una fine che gli era già stato annunciata dal bambino. Davis sa chi è la talpa, ma ha fede nella propria innocenza; finché una rapida cirrosi epatica se lo porta via. Castle va a dargli un ultimo sguardo. «Gli fece piacere che la faccia non mostrasse segni di sofferenza. Richiuse i lembi della giacca del pigiama sul petto incavato» – un fermo-immagine magistrale. Il sacrificio è compiuto, l’errore presto scoperto, l’effetto desiderato è ugualmente raggiunto. La talpa Castle è costretto a fuggire in Russia, travestito appunto da cieco.
«Più che grigio Il fattore umano è schiacciante, un torchio che preme sempre più – ha scritto Scarpa –. La trappola dove si cade insieme, Maurice Castle e noi lettori, è il bisogno di verità…». E di giustizia.

Berkhamsted e i ricordi d’infanzia
Ma il destino di Castle, Greene lo ha a cuore e lo ha arricchito della propria autobiografia. Lo fa abitare a Berkhamsted, un villaggio vicino Londra dove lui stesso è nato, gli presta precisi ricordi della sua infanzia. Il primo abbozzo del romanzo aveva per titolo A Sense of Security. Non procedeva però e pesava come un albatro al collo di Greene, un albatro di nome Kim Philby, la più famosa talpa del secolo, di cui Greene durante l’ultima guerra era stato dipendente e amico, entrambi nel servizio di controspionaggio in Africa. Philby era il più dotato e autorevole dei «Cambridge Five», le cinque talpe che l’Unione Sovietica aveva piazzato ai vertici del servizio segreto inglese, tutti appartenenti all’establishement: stessa educazione tradizionale sfumata di sadismo puritano, stesso atteggiamento scettico verso i grandi sistemi ideologici, consapevolezza che il Bene e il Male non siano così nettamente distinti come i vecchi avevano insegnato. Nel 1963, dopo trent’anni di audace doppio gioco, Philby scompare per ricomparire in Russia come colonnello del KGB . Quello che fu considerato un vergognoso tradimento, secondo Greene non doveva passare per un gesto eccentrico, romantico o paranoico. Tre anni dopo colse l’occasione di affrontare il tema in The Virtue of Disloyalty (La virtù della slealtà): «La lealtà ci confina entro le opinioni autorizzate, ci vieta simpatia e comprensione per i nostri simili-dissimili; la slealtà, al contrario, ci incoraggia a errare attraverso la mente di chiunque; e offre allo scrittore una dimensione ulteriore di comprensione».
Molto spazio dedica Scarpa a questa presa di posizione di Greene che pone con tanti anni di anticipo la questione della fede e della appartenenza se discordi fra loro, e di quegli scrittori che in tutte le epoche ne sono stati testimoni. La slealtà dello scrittore è ricerca, inseguimento, esplorazione ad ampio raggio, e speranza in quella ‘dimensione ulteriore’ in cui risiede la verità ultima. «Ciò che Greene va predicando è la via più difficile …» commentò Elizabeth Bowen. Greene scrisse una breve introduzione all’autobiografia di Philby (My silent War), e a lui mandò le bozze del Fattore umano per una speciale benedizione. Viene da pensare che i protagonisti (veri o finti) delle spy stories al servizio di Sua Maestà, assomiglino a quegli antichi cavalieri che combattevano a Oriente e a Occidente – qualche volta colpevoli di fellonie. Aristocratici e popolari, compivano imprese ben calcolate, non contavano definitive sconfitte o vittorie decisive, e si succedevano con nomi e stili vari. Il premio non era Gerusalemme liberata, ma l’oggetto abbagliante e misterioso al di sopra dello scontro, qualcosa che era più e oltre questo mondo, il Santo Graal.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento