Visioni

Grazia Deledda che cucinava le parole

Grazia Deledda che cucinava le paroleLa cucina della casa di Grazia Deledda a Nuoro

LE TAVOLE DI NATALE Il percorso del cibo e del nutrimento all'interno di alcuni romanzi della scrittrice sarda

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 21 dicembre 2018

C’è una bambina che, durante il sonno, prepara il caffè per la propria nonna defunta. Lo offre agli avventori della sua casa natale anche durante la veglia ma in segno di ospitalità, nei riguardi invece della sua cara scomparsa è un gesto di semplicità intima. Basterebbe seguire le vie del caffè, non solo per Cosima, protagonista del libro omonimo di Grazia Deledda, bensì in tutti i romanzi e i racconti della scrittrice sarda, per comprendere come l’oralità sia una relazione profonda con se stessi e con gli altri. E che il caffè, come altre bevande o alimenti, è un rituale di vicinanza e amicizia. Una cordialità, intesa come forza del cuore, dal profumo intenso, che non si nega a nessuno bensì accoglie sugli usci più poveri, nelle ricorrenze di piccole comunità.

SULLA PRESENZA del cibo nelle pagine di Grazia Deledda, tra l’altro ottima cuoca e conoscitrice non solo della tradizione sarda ma anche di quella «continentale», ci sono testi e anche iniziative. Per esempio il volume di Neria De Giovanni, A tavola con Grazia (di otto anni fa) o, sempre sul tema, l’itinerario offerto dal Parco letterario deleddiano di Galtellì; spostandosi di qualche chilometro però, visitando la casa nuorese della scrittrice, la ricostruzione degli ambienti rende visibile in particolare la cucina, descritta minuziosamente nell’apertura di Cosima. La stanza più frequentata, dove scaldarsi davanti al bracere, ed essere bambini e adulti insieme.

Ma ci sono altre camere, talvolta inespugnabili all’infanzia, scoperte furtivamente eppure negli angoli colme di frumento, orzo, mandorle, patate; oppure tavole di legno con lardo e salumi, e intorno «cestini di asfodelo pieni di fave, fagiuoli, lenticchie e ceci, facevano corte agli orci di strutto, di conserve, di pomidori secchi e salati». Il senso è quello della cosiddetta civiltà agropastorale in cui, immagina Deledda, ciò che si mangia ha tratti viventi, per esempio il latte, delle ore placide della colazione eppure capace di «svegliarsi di soprassalto» in presenza di zio Berte che, in Marianna Sirca, racconta di pietre e di quando il cuore, da freddo, si cuoce. O quando, al cospetto del suo amante-bandito Simone, Marianna compie un gesto essenziale ed erotico: «prese il sale fra le dita, con la stessa gentilezza con cui aveva mischiato le foglie dell’alloro al sangue»; aveva un corsetto perlato «come il chicco della melagrana attraverso la buccia spaccata». E ancora nelle ore gelide, può esserci la generosità di una «minestra benefica», tenuta in una scodella che sembra un «vaso sacro» come quella preparata da Gina per Pinon, che appare in Annalena Bilsini.

Nel frattempo, coi grappoli d’uva appesi al soffitto, alle pareti le forme annerite di formaggio, pensando al nido delle uova in cortile. Gli odori della campagna, quelli dell’orto, si mescolano così nel naso e negli occhi di una terra di Sardegna carica di presagi e di soppravvivenza, da cui si avverte una sapienza del nutrimento a ogni passo.
Deledda non si ferma infatti solo alla nominazione del cibo, della sua preparazione. Mostra piuttosto una rappresentazione delle passioni, quelle più ardite che accolgono l’altro, inteso come ospite o più debole ma anche dell’amato, come quando si spezza il pane insieme a una donna, o semplicemente la condivisione di uno spazio famigliare. Sarà bene imparare da Deledda e dalla sua esperienza sensoariale, per ricordarsi che il cibo è anzitutto un atto di cura. Per questo, non può che essere innamorato.

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