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Grandi illusioni sepolte nelle trincee

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Storia Un pensiero nascosto nella Recherche, eletto a epigrafe della Grande Guerra: «come un amore o come un odio», la guerra va raccontata «a partire dalle illusioni e dalle proprie credenze»

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 24 agosto 2014

Ci sarà mai una storia della Grande Guerra veramente completa, esaustiva? Forse no: ma il libro di Lawrence Sondhaus, Prima guerra mondiale La rivoluzione globale (traduzione di Piero Arlorio, Einaudi, «Grandi opere», pp. XVIII-718, euro 75,00) è un buon passo avanti. Denso, chiaro, intelligente è un racconto della guerra e del suo contesto, di come vi si arrivò, di quanto risultò poi diversissima da quello che tutti dicevano e si aspettavano e di come e perché da lì nascesse poi un mondo diverso, irriconoscibile. Certo, non vi si trovano i nomi dei soldati accanto a quelli dei generali e dei sovrani. È che furono veramente tanti. Per ogni battaglia Sonhaus fa i conti: tot morti, tot prigionieri da una parte e dall’altra. E sono spesso numeri a cinque o sei zeri: col problema per i generali di come rimpiazzarli. Da cui sempre nuove leve, nuovi appelli come quello famoso e destinato a lunga vita del dito puntato nel manifesto di Lord Kitchener («Your King and Country Need You!»).
Certo, quei soldati nel racconto storico ce li vorremmo tutti, proprio tutti, risarcendoli nella memoria meglio di quanto non siano stati capaci di farlo gli atroci monumenti e le interminabili liste di nomi sulle piazze dedicate ai caduti, nel lungo incubo di sensi di colpa collettivi. Ma il modello di storia suggerito da Tolstoj per la storia della campagna di Russia resta al di là delle nostre prospettive. Forse un giorno le risorse del web realizzeranno l’utopia. Già oggi del resto c’è un sito dove, digitando il nome dell’antenato caduto in guerra – quasi tutti ne hanno, chi più chi meno – si può leggere data e luogo della morte. L’ho fatto con due nomi di antenati, due ragazzi del ‘99, due diciottenni contadini richiamati nel terribile 1917 di Caporetto. Uno non c’è: morì a casa dov’era stato rimandato per una polmonite presa nelle notti di guardia al gelo – lui che aveva paura (raccontava mia nonna, sua madre) perfino a uscire di casa la sera. Le cause di guerra furono poi riconosciute, nel suo nome ci fu un albero piantato nel vialetto paesano della rimembranza e lui fece comunque in tempo a chiedere che la sorella appena nata avesse il suo nome. Ma nell’albo dei caduti – albo d’oro, lo chiamano ma è di sangue e di lacrime – quel nome non figura.

L’altro ragazzo c’è: era anche lui un contadino ma studiava in seminario e puntava alla laurea. Rimase di quei suoi studi una piccola biblioteca religiosamente conservata, con ogni libro autografato con nome e date d’acquisto. Il suo corpo finì in pezzi sul medio Isonzo nell’estate del 1917 in una «azione di combattimento», dice l’albo ufficiale. Qualcosa di più si seppe in famiglia: stava armando una bombarda quando gli esplose vicino un proiettile nemico. Dalla dura pietra del Carso partirono tante schegge: una colpì la sua bomba. Qui soccorre il racconto di Sondhaus che informa sempre con precisione, aiuta a capire, a calarsi in quella realtà. Ci dice che quello delle rocce di una natura alleata col nemico fu solo uno dei tanti guai speciali degli italiani: e che specialmente duro fu per loro lo scavo di trincee protettive nella roccia carsica rispetto a chi scavava negli acquitrini del fronte russo o nelle pingui pianure francesi. Per non parlare di come risultasse difficile scavare fosse per i morti. I corpi restavano in superficie e appestavano i loro compagni, a ricordo di quanto provvisoria e precaria fosse per loro la vita.

Altri guai esclusivi degli italiani – racconta Sondhaus – furono la povertà di armamenti, lo svantaggio della posizione con un esercito nemico che li dominava dall’altro delle montagne: anche e soprattutto l’avere un generale come Cadorna, che perseguiva una sua strampalata strategia dell’assalto frontale – in quelle condizioni – e alle stragi dei suoi soldati aggiungeva poi l’insulto dell’accusa di tradimento. Le memorie dei reduci, quelle depositate in libri come quello celebre di Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, ma anche quelle di una lunga tradizione orale, raccolsero le tante voci di una immane tragedia collettiva. Un reduce mi raccontò molti anni fa come avesse vendicato la morte disperata di un ragazzo – contadino, ovviamente – fucilato da un riluttante plotone di esecuzione.

Fu quel reduce a giustiziare alla prima occasione il capitano che aveva costretto i soldati del plotone a sparare. Chissà quante ce ne furono di queste storie non ufficiali. Qui, nel disegno di una grande ricostruzione d’insieme, scopriamo come quello di Cadorna fosse un caso unico perfino nel panorama di generali-macellai di quella che fu l’ultima guerra tradizionale. Tanto che, dopo Caporetto, i generali francese e inglese si rifiutarono di mandare aiuti a chi sbraitava contro i suoi stessi soldati chiamandoli «vermi» e se la prendeva con la propaganda socialista. Così dietro pressione dei governi alleati il «re soldato», il gelido nanetto in divisa allevato nel clima e nella cultura della caserma, fu costretto a rimuoverlo dal comando.

Resta il fatto che l’ingresso italiano nella guerra fu una scelta tardiva, poco comprensibile allora per tutti all’interno e all’estero, avvolta da segreti e cose non dette, esposta all’accusa (ingiusta) di tradimento oltre a essere un’avventura in condizioni di armamento e di preparazione del tutto inadeguate. Come per la realtà italiana anche per gli altri fronti interni e esterni del teatro di guerra Lawrence Sondhaus esplora e approfondisce in molti modi il racconto dei fatti politici e militari: per esempio, fa chiarezza sulle grandi questioni del consenso delle masse e della responsabilità dei potenti. Marc Bloch, allora mobilitato col grado di sergente, osservò una volta che il potere dei governanti fu poca cosa davanti alle masse tumultuanti sulle piazze e nelle strade. Ma lui aveva fatto esperienza della passione nazionale francese per la «revanche», la resa dei conti coi tedeschi attesa dal 1870.

E anche sulle piazze tedesche si videro folle entusiaste, ubriacate dal senso di potenza invincibile di una nazione imperiale guidata dal fanatico bellicista Guglielmo II . Invece in Italia le «radiose giornate» del maggio 1915 furono episodi di piccole minoranze gonfiati dalla propaganda e dalla retorica di un D’Annunzio stipendiato dalla Francia. Le masse contadine italiane furono spedite al macello da una classe dirigente impaurita dalla minaccia socialista e dalla «settimana rossa». Perché se è vero che l’esito della guerra fu una rivoluzione globale, come sostiene Sondhaus, anche l’ingresso in guerra poté sembrare allora una buona occasione per evitare una rivoluzione sociale. Certo, niente fu più come prima. E com’era il mondo d’anteguerra lo si può ricavare anche dalla prima «Storia della guerra mondiale» uscita a stampa in più volumi fin dal 1915: un piccolo primato editoriale italiano, opera di Vico Mantegazza, giornalista tutt’altro che privo di ingegno. Vi si possono leggere, tra i documenti, diverse lettere scambiate tra le teste coronate nell’intervallo fra il colpo di pistola di Gavrilo Princip (per conto della «Mano nera») e la dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia. Nel giorno stesso dello scoppio della guerra Guglielmo II firmava un’ultima lettera allo zar Alessandro, chiamandolo «caro cugino» e spergiurando sulla propria volontà di adoperarsi per la pace. Lettere menzognere, fino all’ultimo, ma affettuose, come in un contrasto di famiglia per la divisione dell’eredità: del resto, gli scriventi erano in gran parte membri di una famiglia larga di teste coronate. E Guglielmo era pur sempre il nipotino dell’imperatrice Vittoria.

La guerra li spazzò via: e fu – scrive Sondhaus – una rivoluzione globale. Quando la guerra finì ci fu a Versailles il capitolo delle colpe: furono tutte addebitate alla Germania, con conseguenze di risarcimenti e di un robusto piede francese sul collo tedesco che posero le premesse della seconda conflagrazione mondiale. Ma intanto Hohenzollern, Asburgo, Romanov e tanti altri «cugini» scomparvero e finì l’incenso dei «Te Deum» a benedire ogni erede e ogni guerra. Nacquero repubbliche e regimi costituzionali, si accesero i rossi bagliori di rivoluzioni comuniste. E a Versailles fu varato il patto costitutivo della Società delle Nazioni con la dichiarazione dell’uguaglianza di tutti gli appartenenti al genere umano. Un’utopia, certo.

Oggi al posto delle lettere tra parenti coronati abbiamo le foto di gruppo dei «grandi» ai vertici, variamente sorridenti. La menzogna almeno è sotto gli occhi di tutti. A epigrafe della Grande Guerra rimase un pensiero folgorante nascosto nella «Recherche» di Proust: la scoperta che la guerra è una cosa umana, che si vive «come un amore o come un odio» e si deve raccontare come un romanzo di Dostoevskij, a partire dalle illusioni e dalle credenze. Era quello che il sergente Marc Bloch si preparava a fare col suo primo folgorante saggio sulle false notizie di guerra. E intanto Proust regolava i conti con le presunzioni scientifiche della strategia insegnata nelle scuole militari tramite una semplice domanda: avrebbero mai immaginato i generali quell’incidente imprevisto che fu la rivoluzione russa?

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