Rubriche

«Grande giornale» (l’Unità al tempo di Ibio Paolucci)

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 4 luglio 2017

Se n’è andato, a 91 anni, anche Ibio Paolucci, giornalista che ha contribuito a fare la storia dell’Unità, soprattutto durante gli anni difficilissimi del terrorismo, di cui si occupò intensamente e rigorosamente, guadagnandosi anche due «condanne a morte» emesse da organizzazioni armate dell’epoca.

Quel tempo lo ha raccontato lui stesso nell’ultimo libro che ha scritto, con un titolo volutamente polemico: «Quando l’Unità era un grande giornale» (Melampo 2015). Il riferimento non era certo ai colleghi che in quel momento lavoravano nell’ex «organo del Pci», ma alla sua linea e gestione schiacciata propagandisticamente sulla leadership di Renzi.

Oggi approfitto di questa occasione e di questo spazio per dire anch’io che è vergognoso l’esito che il partito di Renzi ha determinato con la nuova chiusura della testata, con i suoi lavoratori lasciati senza stipendio e senza impiego, mentre nasce un altro foglio on-line col titolo “Democratica”. Tutta la solidarietà a loro, ma non posso fare a meno di pensare che quella storia è veramente finita, e che non aveva più senso immaginare un collegamento tra questo Pd e un giornale che conserva la scritta «fondato da Antonio Gramsci».

Di Ibio avevo incontrato le tracce, nelle parole e nella grande stima degli altri redattori, nella redazione genovese dell’Unità, dove si era occupato di cultura nel dopoguerra. Poco più tardi l’ho conosciuto personalmente. Non sempre ero d’accordo col taglio di alcuni suoi pezzi, e della «linea» generale del giornale sulla crisi in cui era emerso il fenomeno terrorista. Mi sembrava che non si facessero tutte le necessarie distinzioni tra chi aveva imboccato la strada della lotta armata, e una vasta area di dissenso estremistico e di contestazione, soprattutto giovanile. Che non si cogliessero pienamente le ragioni di quel profondo disagio sociale. Forse sbagliavo.

Ma a maggior ragione voglio ricordare le passioni di un confronto aperto, allora possibile anche in una fase in cui sull’”applicazione della linea” non si scherzava. Si aveva la sensazione di imparare molto. Umanamente e professionalmente.

Paolucci era un uomo che al rigore politico e professionale univa una ricca sensibilità e cultura, amava moltissimo l’arte e la musica. E le conosceva molto bene. Ho saputo da altri colleghi che a Milano avevano mantenuto stretti contatti con lui – Dario Venegoni, Oreste Pivetta, Beppe Ceretti, Paola Rizzi – che è mancato pochi giorni dopo la scomparsa della moglie Gabriella, con cui viveva «in una casa piena di gatti e di libri, sempre avvolta nella musica».

Sono parole lette nel ricordo che ne ha fatto su facebook Dario Venegoni, che ha tratteggiato una biografia fatta di lavoro operaio a Sestri Ponente, dove si era trasferito ragazzo con la famiglia da Castiglione della Pescaia, degli scioperi contro il fascismo, dell’arresto e della deportazione in un campo di lavoro forzato in Polonia. E poi di una intensa attività nel mondo della cultura con il Pci a Genova, e la carriera giornalistica all’Unità, dove a Milano fu anche a lungo responsabile della sezione del partito che riuniva giornalisti e poligrafici.

Ricordare e capire di che cosa si è trattato mi sembra importante, non solo per chi ha vissuto quella stagione. Ho letto nuove sciocchezze sul valore negativo della «nostalgia». Non si tratta, credo, di rimpiangere nulla. Se non l’assenza di persone care.

Ma conoscere bene le radici della propria storia mi sembra indispensabile per tentare davvero qualcosa di nuovo e di meglio.

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