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Gramsci, nella casa di Ghilarza

Gramsci, nella casa di Ghilarza

Il museo Riapre la casa di Antonio Gramsci con la residenza di un gruppo di poeti e artisti

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 27 giugno 2020

l potere di morte e la deumanizzazione del fascismo nei confronti degli avversari politici sono spietati. Antonio Gramsci il 26 marzo del 1927 dal carcere verga a fatica una lettera indirizzata alla cognata «Carissima Tania, non riesco proprio a scriverti, oggi; mi hanno ancora dato un pennino che gratta la carta e mi obbliga a un vero acrobatismo digitale». La volontà di annientamento della dittatura sul prigioniero passa attraverso quel pennino spuntato che rappresenta però anche la sfida e la forza del fondatore del partito comunista italiano resistente ad oltranza. Nel dicembre dello stesso anno al fratello Carlo scrive infatti «Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio». Ed è da questa ultima chiosa che trae spunto il titolo della mostra «Ricominciando dall’inizio » che la Fondazione Casa Museo Antonio Gramsci ha inaugurato sabato 20 giugno al piano terra della Casa di Ghilarza dove Gramsci visse dai sette ai vent’anni dal 1898 al 1911.

La mostra è la prima tappa espositiva del progetto «Ritornare a Gramsci» iniziato con la residenza di un gruppo di poeti e artisti arrivati in Sardegna accompagnati dalle parole di Gramsci. Gli artisti del gruppo sono Mohamed-Salah Omri, umanista tunisino che insegna al College St. John di Oxford, Stephen Watts, poeta inglese con origini in Valcamonica, autore del poema Gramsci&Caruso, l’iraniano Mostafa Ghoratolhamid da molti anni residente in Sardegna e cultore della poesia persiana, Marta Fontana la cui ricerca installativa dal 2012 è ispirata alla vita e agli scritti di Gramsci, Marco Crivellin, fotografo e artista che vive a Firenze, attratto dai temi dei luoghi marginali, del lavoro, dell’esilio. Infine Costanza Ferrini, studiosa di letteratura del Mediterraneo.

Nella mostra l’autobiografia civile di Gramsci viene esplorata dagli ultimi tre artisti che incrociano i quaderni guerrieri traducendo in arte la tensione tra dominio e resistenza, tra prigionia e pensiero libero.
Contro l’obiettivo dei carcerieri che isolano il detenuto per annientarne la personalità Gramsci ricomincia a scrivere «anche con un pennino spuntato». Scrittura, dunque, come resistenza nel luogo dell’annullamento e Ghilarza come sorgente di libertà da cui il prigioniero attinge immagini, sapori, parole e dunque forza.

Gramsci nelle sue lettere, durante la prigionia, ritorna continuamente col cuore alla casa di Ghilarza. Nell’isolamento gli impongono di scrivere in un tempo determinato, l’11 gennaio 1932 verga in questo modo «devo scrivere a giorno fisso ed entro un orario fisso, anche se proprio in quel momento non ne ho voglia o mi sento indisposto… e talvolta devo accelerare la scrittura a rotta di collo per finire in tempo». Gli censurano la corrispondenza privata denudando sentimenti e affetti e, a questo proposito, il 4 aprile 1927 scrive «l’idea della censura epistolare mi toglie la spontaneità… spero di diventare ’spudorato’ come prima, ma ancora non ci riesco… la corrispondenza – scrive ancora il 2 maggio 1927 – è il solo legame che mi unisce al mondo».

Lasciar vivere o abbandonare alla morte dunque sono gli attributi essenziali, per dirla con Achille Mbembe, dell’esercizio della sovranità statuale. Nel tempo della dittatura a Gramsci non resta che resistere attraverso la scrittura, vera e propria radice della conoscenza nel terreno della catastrofe.
La mostra si snoda nelle tre stanze al piano terra. Nella prima stanza, dopo l’ingresso, incontriamo la narrazione fotografica di Crivellin dal titolo «Il cielo occupa il posto della terra» tratto dal Quaderno 8 § 61. Gramsci è convinto che «si può finire di vedere la realtà anche se essa è capovolta come nella macchina fotografica, in cui le immagini sono rovesciate e il cielo occupa il posto della terra.. ». Il cielo e la terra, nel progetto «Ritornare a Gramsci», sono sinonimi di centro e marginalità, sono termini capovolti continuamente, dapprima nella residenza tra i membri del gruppo di artisti e poi nel loro scambio di riflessioni con oltre trecento studenti delle scuole tra cui il liceo classico «Dettori» di Cagliari frequentato dallo stesso Gramsci.

L’obiettivo di Crivellin coglie, durante il lavoro di calligrafia degli studenti, le loro mani al lavoro, l’interazione delle une con le altre e la relazione individuale o collettiva respiro/tempo/gesto il blocco dell’inizio davanti alla carta bianca, la pausa, la scelta della parola, il pennino sospeso.

Proseguendo oltre, dall’ingresso si entra in cucina, in una parete si apre la lunetta del pozzo e in quella opposta da una portafinestra si accede al cortile.
Le installazioni “ Corriazzu e Corrias Corriazzu” di Costanza Ferrini sulle altre due pareti, sono state concepite e realizzate prendendo spunto dalla lettera alla madre del 26 febbraio 1927. Si tratta di due modi diversi di declinare la scrittura e la memoria nella corrispondenza di madre e figlio. Nella prima lettera dopo l’arresto il 20 novembre 1926 scrive “Occorre che tu sia forte, nonostante tutto, come sono forte io… Saperti forte e paziente nella sofferenza sarà un motivo di forza anche per me”. Le pietre della Casa consentono a Gramsci di mantenere il legame con la sua intimità, per evitare la deriva. Si approvvigiona di ricordi d’infanzia, come scrive alla madre appena arrivato a San Vittore, il 26 febbraio 1927.

In Corriazzu c’è la scelta di praticare il frottage su carta di gelso Wenzhou, leggera e resistente alla piegatura dettata dalla sua apparente fragilità. La carta sostiene le calligrafie tattili delle pietre di basalto che sovrastano il pozzo in cucina, quelle disposte dai maistros de muru per perimetrare il cortile o da Gramsci per circondare le rose. Focolare esterno della casa, luogo prediletto da Gramsci, dove nell’estate dei suoi ventun’anni, ammalato, costruì un’aiuola con piccole pietre per piantarvi delle rose.

Il titolo «Corrias Corriazzu» è tratto dalla medesima lettera del 26 febbraio, Gramsci gioca sull’assonanza tra il cognome della famiglia della madre da ragazza, Corrias, e corriazzu, che significa resistente, l’obiettivo è far sorridere la madre che si sente vecchia e stanca.

Gramsci fa sognare alla madre che «pardulas, zippulas, pirrichittos e pippias de zuccuru» concludano un grande pranzo al suo ritorno fra le mura domestiche, in cui lei sarà circondata da tutta la famiglia e i dolci saranno una scoperta per i nipoti russi. La carta detta «vegetale» per uso alimentare è stata scelta dalla artista in riferimento ai dolci.

Di fronte al pozzo un piccolo arco immette nella terza stanza che si apre grande e luminosa, con la volta a botte e la finestra che a sua volta dà sul cortile.
In «Bisogna solo attendere» di Marta Fontana, il processo semantico che muove l’installazione è la trasmutazione dell’oggetto stesso: le trappoline per uccelli, utilizzate dai cacciatori di frodo, si aprono e si «trasfigurano» in volti arcaici, di guerrieri, incisi nello spazio della stanza come antichi segni rupestri sospesi al filo d’imbastitura. La trappola è oggetto di cattura, condanna a morte, elimina la libertà tramite l’inganno, porta la vittima a essere essa stessa agente della propria fine. «Procedendo nel suo pensiero libero, Gramsci affrontò la sua subdola cattura consapevolmente ma fu una fine solamente fisica. Intellettualmente la costrizione lo portò a sondare vita ovunque, fu un agire essenziale ed esistenziale» spiega l’artista. Nel suo fare arte un errore di acidatura, ha trasformato le trappole, ne ha scardinato la tensione.

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