Gramsci, il calcio e lo scopone
Sport Il futuro segretario del partito comunista scrisse in favore del foot-ball come gioco che rappresentava la modernità contrapposto allo scopone simbolo di corruzione e imbroglio. Apprezzarono in seguito anche Togliatti e Berlinguer, entrambi juventini
Sport Il futuro segretario del partito comunista scrisse in favore del foot-ball come gioco che rappresentava la modernità contrapposto allo scopone simbolo di corruzione e imbroglio. Apprezzarono in seguito anche Togliatti e Berlinguer, entrambi juventini
Se Antonio Gramsci fosse vivo, la domenica andrebbe allo stadio. Non sappiamo se frequenterebbe lo Juventus Stadium, il gioiellino di casa Agnelli, edificato sulla scia degli stadi di proprietà delle più grandi squadre europee, per seguire le imprese calcistiche dei bianconeri, oppure andrebbe più volentieri a vedere le partite del Torino, che il semplicismo calcistico vorrebbe essere la squadra degli operai della Fiat, oggi di proprietà di Cairo, il patron di La 7.
Circa un secolo fa, nelle sue rubriche di costume sull’ Avanti! poi raccolte nel volume Sotto la Mole, Antonio Gramsci invitava gli operai a frequentare lo stadio, esaltando il mondo del calcio come espressione della modernità. Il futuro segretario del partito comunista analizzò due aspetti del tempo libero degli operai: il calcio e il gioco delle carte. Lo scritto gramsciano pubblicato sotto il titolo emblematico Il Football e lo scopone è l’occasione per analizzare i vizi e le virtù degli italiani attraverso il gioco del calcio, che metaforicamente rappresentava la società liberale, quella anglosassone e patria del calcio, contrapposta alla società della corruzione e dell’imbroglio italiana-giolittiana: «Anche in queste attività marginali degli uomini si riflette la struttura economico-politica degli Stati. Lo sport è attività diffusa delle società nelle quali l’individualismo economico del regime ha trasformato il costume, ha suscitato accanto alla libertà economica e politica anche la libertà spirituale e la tolleranza dell’opposizione».
Gramsci in realtà parte da una lunga premessa sul modo di essere degli italiani, che preferiscono lo stile di vita pantofolaio, confermato un secolo dopo da una recente indagine di Eurobarometro, l’istituto di ricerca dell’Ue, che classifica gli italiani tra i più sedentari d’Europa dopo i greci e i bulgari. «Gli italiani amano poco lo sport; gli italiani allo sport preferiscono lo scopone. All’aria aperta preferiscono la clausura in una bettola-caffè, al movimento la quiete intorno al tavolo» premette Gramsci, prima di addentrarsi in un’analisi interessante che mette a confronto la cultura del calcio e quella dello scopone, espressione di due modi contrapposti di concepire la società: «Osservate una partita di football: essa è un modello di società individualistica: vi si esercita l’iniziativa, ma essa è definita dalla legge. Le personalità si distinguono gerarchicamente, ma la distinzione avviene non per carriera ma per capacità specifica; c’è il movimento, la gara, la lotta, ma esse sono regolate da una legge non scritta, che si chiama lealtà e viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro. Paesaggio aperto, circolazione di aria, polmoni sani, muscoli forti, sempre tesi all’azione».
Quando Antonio Gramsci scriveva queste note il campionato di calcio era ancora sospeso per via degli ultimi mesi della Grande Guerra, ma nonostante l’interruzione dei campionati egli aveva potuto cogliere l’essenza del foot-ball, come si scriveva allora, grazie al proliferare di squadre di calcio dilettantistiche su tutto il territorio nazionale e al fatto che il suo osservatorio fosse Torino, città che sin dalla fine dell’800 aveva ospitato in un unico giorno il primo campionato italiano di calcio, vinto dal Genoa, che si aggiudicò il primo scudetto. Se per Gramsci la partita di calcio è l’emblema della democrazia, perché si disputa a cielo aperto e sotto gli occhi del pubblico, che può distinguere e apprezzare i calciatori per capacità, di tutt’altro spirito è impregnata la cultura dello scopone: «Una partita allo scopone. Clausura, fumo, luce artificiale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla faccia dell’avversario…o del complice. Lavorio perverso del cervello. Diffidenza reciproca. Diplomazia segreta. Carte segnate. Strategia delle gambe e della punta dei pedi. Una legge? Dov’è la legge che bisogna rispettare? Essa varia di luogo in luogo, ha diverse tradizioni, è occasione continua di contestazione e litigi».
Se per il futuro segretario del partito comunista italiano che sarà fondato a Livorno tre anni dopo queste note, nel gennaio del 1921 «lo sport suscita anche in politica il concetto di ‘gioco leale’» secondo il dirigente politico sardo la cultura dello scopone è l’espressione più retriva della società: «Lo scopone è la forma di sport della società economicamente arretrata, politicamente e spiritualmente, dove la forma di convivenza civile è caratterizzata dal confidente di polizia, dal questurino in borghese, dalla lettera anonima, dal culto dell’incompetenza, dal carrierismo (con relativi favori e grazie del deputato).Lo scopone produce i signori che fanno mettere alla porta dal principale l’operaio che nella libera discussione ha osato contraddire il loro pensiero».
L’interesse di Gramsci verso il calcio non fu un fatto isolato, anche altri segretari del partito comunista manifestarono, seppur segretamente, una vera e propria passione per il calcio che in più occasioni si trasformò in tifo per la Juventus. Dopo la Liberazione, Palmiro Togliatti ogni lunedì chiedeva al vicesegretario del Pci, Pietro Secchia, che cosa avesse fatto la Juve il giorno prima, e Secchia che si era formato alla ferrea scuola del Pci e mai si era interessato di calcio, spiazzato dalla richiesta del segretario assumeva un’espressione interrogativa, in quel preciso momento Palmiro Togliatti gli diceva con aria bonaria: «Vuoi fare la rivoluzione senza sapere i risultati delle partite di calcio?». Anche Enrico Berlinguer, pur avendo nel cuore il Cagliari, alle cui partite assisteva quando andava in Sardegna per impegni politici, si tenne sul solco del tifo bianconero, attribuendo questa scelta, quasi scusandosi, a un peccato di gioventù. Enrico Berlinguer, confessò il suo tifo per la Juve a un sardo d’adozione, che rappresentava la punta di diamante del Cagliari e della nazionale di calcio, Gigi Riva, il quale anni dopo rivelò la passione bianconera del segretario del Pci nel corso di una trasmissione radiofonica.
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