Cultura

Gramsci e l’americanismo

Gramsci e l’americanismo

Anticipazioni Antonio Gramsci, tra fordismo e bolscevismo. Un estratto dalla relazione del filosofo al convegno che si terrà oggi nella Sala Mercede di Roma

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 27 giugno 2013

Come spiegare l’attenzione intensa che a partire in ogni caso dal 1929, come dimostra una lettera a Tania del 25 marzo di quell’anno, Gramsci riserva all’«americanismo» e al «fordismo»? Il giudizio a tratti positivo espresso a tale proposito dai Quaderni del carcere dimostrerebbe il crescente distacco del rivoluzionario in carcere dal movimento comunista? Al di là del desiderio di accomodamento al clima ideologico oggi dominante che ispira tale interpretazione, a viziarla è un equivoco di fondo.
Le pagine su «Americanismo e Fordismo» parlano non solo degli Stati Uniti ma anche della Russia sovietica, e forse parlano della Russia sovietica più ancora che degli Stati Uniti. L’affermazione può suonare paradossale e persino arbitraria; non resta allora che interrogare i testi e il contesto storico.
Cominciamo dal contesto. In quel momento a Mosca, il cattolico francese Pierre Pascal saluta la rivoluzione d’ottobre come l’avvento di una società in cui ci sono «solo poveri e poverissimi» e la cui nobiltà morale consiste nella distribuzione più o meno egualitaria della miseria. Siamo portato a pensare alla polemica del Manifesto del partito comunista, secondo cui i «primi moti del proletariato» sono spesso caratterizzati da rivendicazioni all’insegna di «un ascetismo universale e un rozzo egualitarismo»: non c’è «nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una mano di vernice socialista». Si comprende allora la posizione di Lenin, che nell’ottobre 1920 dichiara: «Noi vogliamo trasformare la Russia da paese misero e povero in paese ricco»; per conseguire questo risultato occorre «un lavoro organizzato», al fine di assimilare «le ultime conquiste della tecnica», compreso il taylorismo americano.
Tutto ciò agli occhi di Pascal è solo sinonimo di «americanizzazione». Su questa linea di pensiero si colloca in Francia Simone Weil, che nel 1932 giunge alla conclusione che la Russia ha ormai come modello l’America, l’efficienza, il produttivismo, «il taylorismo». A partire di qui, la filosofa francese rompe con Marx, considerato responsabile di non aver compreso un punto essenziale: è «il regime stesso della produzione moderna, cioè la grande industria» a dover esser messo in discussione; «con quei penitenziari industriali che sono le grandi fabbriche si possono fabbricare solo degli schiavi, e non dei lavoratori liberi». Si potrebbe dire che agli occhi di Weil l’autore del Capitale era affetto da un «americanismo» ante litteram.
Conviene infine tener presente Martin Heidegger, che nel 1942 proclama: «Il bolscevismo è solo una variante dell’americanismo». Sul versante opposto, è quanto mai eloquente la posizione nel 1923 assunta da Bucharin: «Abbiamo bisogno di sommare l’americanismo al marxismo».
Una volta ricostruito il contesto storico, possiamo procedere alla lettura dei testi. Nell’apprezzare l’«americanismo» (o certi suoi aspetti), Gramsci è in piena coerenza col suo rifiuto, espresso già nel momento in cui saluta la rivoluzione d’ottobre, di identificare il socialismo col «collettivismo della miseria, della sofferenza». No, questo stadio dev’essere superato «nel minor tempo possibile».
Sono gli stessi Quaderni del carcere a sottolineare la continuità con il periodo giovanile, allorché fanno notare che già «’L’Ordine Nuovo’ (…)sosteneva un suo ’americanismo’». Possiamo ora comprendere meglio il quaderno «speciale» 22, dedicato a «Americanismo e fordismo». Leggiamo il § 1: «Serie di problemi che devono essere esaminati sotto questa rubrica generale e un po’ convenzionale di Americanismo e Fordismo». Siamo in presenza di un tema «generale» che rinvia a una molteplicità di problematiche e anche di paesi e che viene trattato con un linguaggio «convenzionale», data la necessità di stare in guardia contro un possibile intervento della censura fascista.
Il quaderno 22 così chiarisce quello che è in discussione: «Si può dire genericamente che l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica e che i vari problemi esaminati dovrebbero esseri gli anelli della catena che segnano il passaggio appunto dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica».
Si fa qui riferimento agli Stati Uniti o alla Russia sovietica? È difficile per il primo paese parlare di «passaggio» all’«economia programmatica». Il quaderno che stiamo analizzando si chiude (§ 16) con l’affermazione per cui negli Usa, contrariamente ai miti, non solo la lotta di classe è ben presente ma essa si configura come la «più sfrenata e feroce lotta di una parte contro l’altra».
E dunque, le pagine su americanismo e fordismo ci consegnano non un Gramsci che si sta congedando dalla tradizione comunista, ma un Gramsci che, in polemica con le posizioni alla Pierre Pascal e alla Simone Weil, chiama il movimento comunista a «valorizzare la fabbrica», a respingere una volta per sempre le nostalgie pre-industriali di segno populista e pauperista e a pronunciarsi per un marxismo depurato di ogni residuo messianico. È anche per questo che i Quaderni del carcere rivelano ancora oggi una straordinaria vitalità. Alcuni processi ideologici meritano attenzione.
1) La straordinaria fortuna di cui ha goduto e gode nella sinistra occidentale un filosofo quale Heidegger, campione di un anti-industrialismo e di antiamericanismo (che è al tempo stesso un anti-sovietismo) da Gramsci giudicato «comico» e «stupido».
2) Soprattutto nella stagione del ’68 assai diffusa era a sinistra la tendenza che liquidava la riflessione di Gramsci quale sinonimo di subalternità al produttivismo capitalista, allo stesso modo in cui tre decenni prima Simone Weil aveva bollato Marx quale profeta di una «religione delle forze produttive» fondamentalmente borghese.
3) Ai giorni nostri, mentre a partire dalla Francia, nonostante la crisi e la recessione, si diffonde il culto della «decrescita» caro a Latouche, in un paese come l’Italia la sinistra cosiddetta radicale sembra talvolta contestare l’alta velocità in quanto tale. Indagare di volta in volta l’impatto ecologico e il costo economico di una linea ferroviaria è legittimo e anzi doveroso; è invece sinonimo di luddismo respingere l’alta velocità in quanto tale.
4) La sinistra occidentale guarda con grande diffidenza o con aperta ostilità a un paese come la Repubblica popolare cinese, scaturita da una grande rivoluzione anticoloniale e protagonista di un prodigioso sviluppo economico, che non solo ha liberato diverse centinaia di milioni dalla fame e dalla degradazione ma che finalmente comincia a mettere in discussione il monopolio occidentale della tecnologia (e quindi le basi materiali dell’arroganza imperialista). E come i populisti degli anni ’20 e ’30 condannavano quale espressione di «americanismo» lo sviluppo industriale della Russia sovietica, così oggi non sono pochi coloro che a sinistra bollano la Cina odierna come una brutta copia del capitalismo statunitense.
Non c’è dubbio: il populismo è tutt’altro che morto. Ma è proprio per questo che la sinistra ha più che mai bisogno della lezione di Antonio Gramsci.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.



I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento