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Graham, seduzioni del post-human

Graham, seduzioni del post-humanJorie Graham nel 1999, foto di Christine Krikliwy

Poesia contemporanea L’universo, come il corpo umano, può farsi cenere... Il personale e il politico nell’ultima raccolta della poetessa nata a New York e cresciuta a Roma: Fast, Garzanti, traduzione Antonella Francini

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 29 settembre 2019

L’ultima raccolta di Jorie Graham, fast (Garzanti «La biblioteca della Spiga», traduzione di Antonella Francini, pp. 284, € 20,00), si apre in epigrafe sotto il doppio segno di Roma e di Robert Browning, il quale, con il suo Two in the Campagna, le dà l’imbeccata romana, presto espansa in una problematica a più ampio respiro. Afferrare l’attimo fuggente, fa infatti intendere la citazione, prima che il mondo della voce poetante e quello dell’essere di chi legge o ascolta, ‘transitino’ in un nuovo assetto. In sostanza, per ora ci viene detto: hold it fast, tienilo stretto quel momento esperienziale, perché ha poca durata. Si capirà in seguito che Graham sta tessendo un’elegia per suo padre, appena scomparso, e per la madre declinante (e per se stessa colpita e risanata dal cancro). Dunque, l’invito, la speranza, è a tenere duro nella vita e non perdere l’attimo, perché esso è ciò che ci divide fra essere e non essere, o essere qualcos’altro.
Fast, «veloce» in inglese, è diviso in quattro parti e raccoglie ventitre poesie. Si inizia con Ceneri, in cui la voce guida è ripiegata su se stessa, monologa confusamente e disegna il contesto della sua nuova avventura poetica. Panta rhei: tutto è in transizione in questo mondo, tutto scorre verso un fine; nulla è stabile, noi non siamo mai ciò che eravamo un secondo fa. La morte è processo costante e, nel caso di Graham, un continuo «entrare» in un «posto». Graham infatti è da sempre ossessionata dal «posto» («la faccenda del posto sospesa sopra di me anno dopo anno»), divisa, com’è, dalla storia singolare della sua adolescenza.
Nata a New York e cresciuta a Roma, la nostra città l’ha plasmata fino alle midolla, inculcandole, di contro alle scansioni del tempo dell’altrove, quell’idea di città «eterna» di cui essa è pretestuosamente detentrice; città, tuttavia, come nessun’altra stratificata negli spazi verticali e città multi-temporale, ovvero partecipe simultaneamente di più tempi e di più luoghi, in cui il cittadino è costretto a «entrare» per inoculate ragioni contestuali. Roma è il «posto» per eccellenza, immune, immaginativamente dall’estinzione. Può decadere, però mai sparire, così almeno nella tradizione letteraria anglo-sassone: le grandeur that was Rome, cantava E. A. Poe (To Helen). Essa è, comunque, un punto di sostegno per Graham, la quale vi fa spesso ritorno – a Trastevere, al Gianicolo –, forse per ritemprarsi in tal senso.
Non così invece il mondo. Se noi siamo in continuo disfacimento, ci dice Graham in un veloce passaggio, tanto più lo è l’universo deteriorato dal presente ecosistema: un «universo può morire» afferma, riuscendo ella in tal modo a coniugare anche in questo libro il personale e il politico, le due sfere che la preoccupano di più. L’universo, come il corpo umano che muore, può farsi cenere.
Fast, caratterizzato da versi lunghi (così lunghi da richiedere il posizionamento dell’originale non «a fronte» ma alla fine dell’intero blocco in italiano), sintassi traballante, ellissi grammaticali, sconnessioni logiche, è anche densamente intertestuale. Graham ha letto molto nel suo apprendistato. Lo mostra bene la seconda poesia, Nido d’ape (un punto all’uncinetto?) ove, in un esordio nonsense da capogiro, emerge subito un richiamo interessante, e poi più avanti, distanziati e concatenati, un altro, e un altro e un altro. Vediamoli brevemente qualcuno in quanto torna utile al vivere di oggi: «Il centro / tiene, tiene, non ti preoccupare». Graham sta qui correggendo e rassicurando il W. B. Yeats del Secondo avvento (The Second Coming): «Things fall apart; the centre cannot hold» (Le cose cadono a pezzi; il centro non tiene). Nel 1919, a un anno dalla conclusione della Grande guerra, Yeats parlava di gravi mutamenti e di declino catastrofico del mondo che, a suo avviso, si avviava inesorabilmente verso una fine da Apocalisse. Il parallelo con il nostro presente non è difficile da immaginare. Se ciò non bastasse, Graham si spinge oltre, fino a evocare T. S. Eliot, anzi entrambi i due amici d’antan, perché in realtà ella cita Ezra Pound che nei Cantos cita dai Quattro quartetti di Eliot: le cose, gli esseri hanno «inizi e finali» («have beginnings and ends» o «ends and beginnings»). Cosa vorrà dire? Intanto, ecco spuntare dal nulla (da una casa abbandonata?) due nomi a qualcuno familiari: Mrs. Ramsay e Lily Briscoe. È Virginia Woolf che scrive Gita al faro, a mio parere il suo libro più bello, quello che segna una spezzatura drammatica tra infanzia sognante ma insoddisfatta (la gita al faro, sempre posposta, non ci sarà mai) e maturità nostalgica e rammemorante. La Virginia Woolf sessantenne nella sua casa di campagna percorsa da un ruscello la ritroviamo qui nei versi di Graham (che, di suo, piange forse la sua infanzia romana). Nei farfugliamenti del dettato poetico che segue si contano «sassolini di fiume» e «morti». Graham sta discettando oscuratamente di suicidio: per qualcuno una soluzione buona in tutti i casi estremi.
Fast parla spesso tramite richiami di questo tipo, costruisce così la sua «lettera» al mondo. Nella lirica Noi, per esempio, Graham riscrive l’Angelus novus (l’«angelo necessario» o «della storia») di Walter Benjamin, spiegandoci al contempo il rapporto Storia-Tempo. Anche per lei l’angelo, che si lascia indietro le morti e le rovine del passato, «non si / volta indietro-non si guarda alle spalle-imperturbato», guarda «ma non all’indietro», guarda al futuro, mentre il passato resta un «enigma»: in Fast «Siamo nell’enigma del passato».
Si sono voluti dare solo assaggi di ciò che può celare la scrittura di questa poetessa (di ogni grande poeta). Naturalmente, non si chiede al lettore comune di arrivare a tali sottigliezze. La poesia deve essere comunicabile come suono, effetto estetico, e soprattutto messaggio pubblico per tutti i lettori (o ascoltatori). E questo ha curato in particolare e con sapienza la benemerita Antonella Francini, la quale ha cercato di rendere in italiano valori tecnici per un verso e messaggio civico sull’era digitale e post-umana per un altro, con la consulenza, l’approvazione e l’orecchio fine della stessa Graham. Non c’è dubbio che qui Graham esplori i limiti dell’umano e le inquietanti seduzioni del postumano. E non c’è dubbio che, ci viene detto nella bandella, evocando «una varietà di voci e prospettive diverse, – dalla sacra sindone ai fondali oceanici – questi testi danno forma e urgenza alla sempre più rapida trasformazione da cui è investito il pianeta: tra cyber-vita, “vita” stampata in 3D, vita dopo la morte, vita biologicamente, chimicamente ed elettronicamente modificata». Sono le problematiche che affrontiamo oggi. Ci sarebbero infine da approfondire le modalità del poema elegiaco in Fast, che vuole essere in primis un addio al padre e al mondo giunto, come Mr. Graham, sull’orlo di un baratro da cui non si torna indietro.
Sotto un peso così imponente si spegne il subplot intertestuale di Fast. Francini/Graham hanno giustamente scelto una strada più necessaria dell’altra da me esaltata (a proposito: «In my beginning is my end», dice Eliot nei Quartetti, «Nel mio inizio è la mia fine», dunque «fini e principi» e non «finali»). Per il lettore più accorto c’è un lavoro maggiore da fare e molto più da ricevere. Deve scavare o farsi tornare all’orecchio costruzioni logiche e musicali a lui (o lei) già note e godere del loro funzionamento in una nuova architettura. Si ricordi: i poeti bravi, diceva Eliot, rubano non imitano. È ormai chiaro che anche Jorie Graham è un poeta che, fra le altre osservanze della scrittura poetica, si dà facilmente al furto, cedendo così alle tentazioni che distinguono tutti i grandi poeti.

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