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Graeme Armstrong, lisergiche euforie della working class di Glasgow

Graeme Armstrong, lisergiche euforie della working class di GlasgowBrian Anderson, «Young girl running, Merchant City, Glasgow» da «Eye Belong to Glasgow», 1988-2018

Scrittori scozzesi «La gang», da Guanda

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 16 gennaio 2022

La vocazione alla violenza e il fatalismo ruvido di ragazzini apprendisti guerrieri, la spirale divertita e travolgente di droga e alcol, le geografie urbane tracciate dai conflitti fra le bande e i fantasmi di un passato glorioso che si palesano all’ingresso dei boschi, fanno da sfondo a La gang di Graeme Armstrong (traduzione di Massimo Bocchiola, Guanda, pp. 399, € 19,00), che guadagna subito velocità grazie a una voce narrativa spregiudicata, fatta dello slang giovanile di Glasgow.

Il romanzo esibisce alcuni dei grandi temi dell’identità scozzese già profanati nella sordida rielaborazione di Trainspotting: al pari dei suoi coetanei di Coatbridge, cittadina del Lanarkshire «leggermente meglio dell’ex Urss», Azzy Williams detto «spaccaculi» si dedica anima e corpo all’apprendimento di un codice che contempla abiti in stile Ned, risse al parco e rave tossici quali riti di passaggio lungo un processo di formazione che si traduce presto in corsa al massacro. Azzy e i suoi amici sono troppo coinvolti, e ipnotizzati dal senso di appartenenza alla propria comunità per vedere il baratro di devastazione entro cui stanno precipitando.

Lisergiche, linguisticamente disarticolate eppure vivide, le pagine di La gang aggiornano di un nuovo capitolo l’antologia globale dei sabati del villaggio, mentre descrivono il crescendo euforico che inaugura il fine settimana.
In realtà, nella variante di Armstrong l’idea del sabato prefestivo si adatta alle corde working class scozzesi per declinarsi in «senso del venerdì sera», una «vibra» esuberante e resa quasi furibonda dalle promesse elettriche di ebbrezza, sesso e violenza di cui si compone. Promesse così avvincenti da far dimenticare, ogni volta, che all’indomani di quelle pulsazioni resterà solo un «guscio rotto e bruciato»; come riconosceranno anni dopo, «esaltante era la scintilla iniziale, mai il fuoco che veniva dopo». Altrettanto toccanti, i capitoli che entrano nei dettagli delle crisi di panico, dell’incubo dell’astinenza, con le sfide fisiche e mentali della battaglia combattuta da Azzy per «ripulirsi» e intraprendere un percorso di «redenzione».

Nelle accelerate cui l’azione e lo svolgersi dei diversi destini si impossessano della trama si insinuano anche immagini prevedibili, e fra esse la descrizione della gratitudine verso un insegnante che crede nella propria missione, o il tenero quadretto familiare di chi ha scelto di ritirarsi dalla guerra fra gang e, per altro verso, la solidarietà viscerale fra chi condivide l’irrefrenabile pulsione all’aggressività e il senso di onnipotenza che ne deriva quando la si esercita in gruppo. Fra amici uccisi a colpi di lama, cedimenti all’eroina, e la reazione di prostrata acquiescenza che puntualmente scandisce il bollettino delle tragedie nel quartiere, il lettore si trova a fare i conti con quel nichilismo ironico con cui non poca letteratura contemporanea osserva e descrive l’evaporazione di qualsiasi criterio di colpevolezza.

Nella lingua parlata, o meglio, nella adesione o meno al dialetto, sta il grande e forse l’unico spartiacque identitario, ciò che garantisce e suggella le divisioni, geografiche e di classe, fra chi arriva al college e chi resta avvinghiato nelle trame dell’orgoglio proletario per cui ogni allontanamento dal proprio luogo natale, Coatbridge compresa, diviene un tradimento. Di fronte al compito di ricreare una lingua per riprodurre un dialetto che si contraddistingue proprio per l’autenticità non filtrata con cui aderisce in presa diretta al sentire e al vissuto più materiale dei protagonisti, il traduttore del romanzo, Massimo Bocchiola, ci consegna la migliore delle rese possibili, frutto di scelte creative e coraggiose.

Se la trama non si sottrarrà mai del tutto al rullo dei tamburi di guerra, anche fra i sedicenti eredi dei leggendari guerrieri scozzesi si fa largo una consapevolezza: la tragedia di generazioni che rischiano la vita avvicendandosi nella difesa del quartiere sta proprio nell’interiorizzare i miti combattenti senza metterne a fuoco la reale funzione di scappatoia, di rassicurante barricata contro le insidie di un futuro imprevedibile e libero da ruoli e predestinazioni.

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