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Graeber e Atene, decolonizzare la storia antica

Graeber e Atene, decolonizzare la storia anticaAugust Ahlborn (da Karl F. Schinkel), Blick in Griechenlands Blüte, part., 1836, Berlino, Alte Nationalgalerie

Classico e Cancel culture: democrazia La «Critica della democrazia occidentale» dell’antropologo attivista americano: non c’è alcuna ininterrotta tradizione dai Greci a noi

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 28 agosto 2022

Quasi due anni sono trascorsi dalla morte, inaspettata e prematura, di David Graeber. Molto di più che un brillante professore di antropologia, era stato ispiratore e leader intellettuale del movimento Occupy Wall Street nel 2011, un evento che lo aveva reso un intellettuale pubblico di fama mondiale, un teorico riconosciuto della democrazia radicale (Progetto democrazia, il Saggiatore, 2013), uno storico dell’economia capace di sovvertire la concezione corrente di debito (Debito. I primi 5.000 anni, il Saggiatore, 2012), da ultimo un critico delle origini dell’Illuminismo e dello sviluppo della civiltà umana (L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, con David Weingrow, Rizzoli, 2022).

Apparentemente l’antica Grecia non rientra tra gli interessi di Graeber; tuttavia la democrazia di Atene occupa un ruolo importante in Critica della democrazia occidentale (Elèuthera, 2012, nuova traduzione 2019). A dire il vero il focus del libro non è tanto sulla democrazia ateniese in sé, quanto sull’appropriazione di essa da parte di un’influente tradizione intellettuale, che sarebbe divenuta egemone nel corso del XX secolo. Una tradizione che si fonderebbe su due presupposti: che «la “democrazia” sia un concetto “occidentale” che affonda le proprie origini nell’Atene classica»; e che «la rivitalizzazione operata dai politici del XVIII e XIX secolo abbia portato essenzialmente a replicare la stessa cosa. La democrazia sarebbe allora un fenomeno il cui habitat naturale è l’Europa occidentale e le sue colonie di lingua inglese o francese».

Quel che sta a cuore a Graeber è confutare questi presupposti, iniziando dall’idea che la democrazia sia un’esclusiva occidentale; anzi per Graeber non ha neppure senso parlare di «tradizione occidentale» nel senso divulgato da Samuel Huntington (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2000), al massimo si può parlare di una tradizione letteraria e filosofica, da cui deriva, sì, il nome ‘democrazia’ ma senza che questo autorizzi a rivendicare alcun primato né per il concetto né per le pratiche corrispondenti, rintracciabili non solo in Atene ma anche altrove, dalla Mesopotamia all’India, anche se per queste civiltà si vorrebbe negare il titolo di democrazia dato il carattere consensuale. Graeber tuttavia contesta anche il nesso tra democrazia e voto a maggioranza, che sarebbe praticabile solo in presenza di un apparato coercitivo capace di far rispettare le decisioni della maggioranza; in altre parole, i sistemi con votazioni a maggioranza implicano la presenza di uno Stato che detiene il monopolio della forza. Sarebbe quindi l’assenza di struttura statale a spiegare la prevalenza della democrazia consensuale su quella maggioritaria in epoca premoderna, non certo una intrinseca inferiorità di alcuni popoli rispetto ad altri.

Graeber riconosce che non c’è traccia di una vera polizia in Atene classica; tuttavia il popolo, compresi gli strati anche più modesti del demos, avevano il kratos in quanto popolo in armi. Di qui verrebbe il nome ‘democrazia’, dato dagli aristocratici inizialmente come un marchio di condanna e divenuto poi sinonimo di instabilità e tumulto attraverso i secoli; non è un caso che i padri fondatori degli Stati Uniti d’America, come John Adams e James Madison, si ispirassero alla Repubblica di Roma mentre Atene veniva additata come troppo pericolosa. Il recupero positivo del termine ‘democrazia’ è solo successivo e avviene contro le intenzioni di chi aveva concepito il sistema rappresentativo proprio per arginare la partecipazione popolare. Non c’è, insomma, alcuna ininterrotta «tradizione occidentale» della democrazia dagli antichi Greci a noi; e neppure la riscoperta ottocentesca della democrazia dovrebbe essere considerata un fenomeno tutto interno a questa tradizione ma semmai ricercata in uno spazio di «improvvisazione interculturale».

Atene classica, quindi, come una democrazia, sì, ma con un limite considerevole: il voto a maggioranza. La critica della procedura maggioritaria da parte di un teorico e attivista che si richiama all’anarchismo non è certo sorprendente; che tuttavia quella ateniese sia classificabile come una democrazia maggioritaria è meno scontato di quanto Graeber presume. È vero che le sedute nelle assemblee di Atene si concludevano col voto, ma solo dopo che la discussione aveva portato a includere nel testo del decreto modifiche e correzioni, con un’approvazione finale a larga, spesso larghissima maggioranza, tanto che consensus democracy sembrerebbe una definizione più adatta che majority democracy. La natura della democrazia ateniese sembra essere fraintesa da Graeber, che oltretutto non considera minimamente la notevole complessità delle sue istituzioni; finisce così per confermare il vecchio stereotipo antidemocratico, risalente ancora al V secolo a.C., per cui l’assemblea popolare non riconosceva limiti all’infuori di sé, in antitesi con il moderno concetto di «stato di diritto».

Graeber insiste poi sul consapevole rigetto del concetto stesso di democrazia da parte dei fondatori degli Stati Uniti; ad Atene quindi non si potrebbe riconoscere un ruolo neppure come momento storico esemplare, e neanche come fonte di ispirazione per l’oggi, come invece accade per altri teorici contemporanei della democrazia, come John Dunn, Jacques Rancière o Nadia Urbinati. In questa contestazione della «tradizione occidentale» Graeber non è solo; altri convergono con le sue tesi, come Amartya Sen (La democrazia degli altri, Mondadori, 2005), il quale, pur riconoscendo l’esistenza di una tradizione occidentale, ritiene che, se la democrazia è government by discussion, allora va rintracciata anche in altre tradizioni culturali, dall’India all’Islam, senza alcuna esclusiva occidentale. C’è da chiedersi, tuttavia, se questa definizione di democrazia, pur cogliendo un fattore fondamentale, non rischi di essere troppo minimalista e non finisca per oscurare le differenze tra gruppi di dimensioni molto ristrette e comunità molto più numerose e territorialmente estese, come nel caso dell’Atene classica, oltre che misconoscere il grado di sofisticazione delle sue istituzioni.

Quando poi Graeber afferma che Atene va esclusa dalle fonti dell’ideale democratico in quanto la sua tradizione intellettuale è antidemocratica, trae da premesse in parte condivisibili conclusioni che lo sono molto meno; se è vero, infatti, che la tradizione della teoria politica nasce con Platone e Aristotele (non esattamente dei partigiani della democrazia), è altrettanto vero che quella teoria politica sorge in relazione e per reazione alla contemporanea esperienza democratica, di cui mantiene alcune premesse non secondarie; basti pensare alla teoria della costituzione mista, fondamentale anche per i costituenti nordamericani. In realtà il riferimento ad Atene attraversa, implicitamente o esplicitamente, la storia del pensiero politico europeo, sia pur spesso in una prospettiva critica, da Machiavelli a Montesquieu, da Hobbes a Rousseau, da Mill a Weber.

Le tradizioni, va pur riconosciuto, sono frutto di costruzione umana, non sono cioè un dato naturale e immutabile come vorrebbe una visione stereotipata, tutt’altro che scomparsa dalla pubblicistica corrente. La sfida che Graeber pone allo studioso contemporaneo della democrazia antica è quella di guardare a essa sottraendosi alla tentazione di un’ottica separatista o colonialista; in fondo, era quello su cui meditava già Arnaldo Momigliano quando, verso la fine degli anni sessanta, invitava a decolonizzare la storia antica.

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