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Governo, regioni e sistema di voto: gli squilibri sono tre

Governo, regioni e sistema di voto: gli squilibri sono tre

Costituzione Tre nodi costituzionali vengono, in queste ore, al pettine, intrecciandosi pericolosamente l’uno all’altro. Il primo nodo è rappresentato dalla verticalizzazione della forma di governo e, al suo interno, del potere […]

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 13 dicembre 2020

Tre nodi costituzionali vengono, in queste ore, al pettine, intrecciandosi pericolosamente l’uno all’altro. Il primo nodo è rappresentato dalla verticalizzazione della forma di governo e, al suo interno, del potere esecutivo.

Sempre più, nell’ultimo quarto di secolo, il governo è andato identificandosi nella figura del presidente del Consiglio, alimentando una distorsione del sistema parlamentare arrivata a tollerare il nome del candidato premier nei simboli elettorali.

Come se fossimo in un regime presidenziale.

Dal Silvio Berlusconi «unto del Signore» del 1994 al Giuseppe Conte «avvocato del popolo» del 2018 la parola d’ordine è sempre la stessa: «Direttismo», il modo in cui Giovanni Sartori aveva (criticamente) definito l’attitudine dei leader a costruire una relazione personale e diretta con il corpo elettorale.
Una delle più evidenti conseguenze della centralità assunta non solo dal governo, ma soprattutto dalla sua figura di vertice è l’incremento delle funzioni, e conseguentemente degli apparati, di palazzo Chigi (ed è curioso notare come la polemica sui costi della politica, tanto inesorabile quando si tratta dei bilanci parlamentari, mai abbia investito la presidenza del Consiglio).

Non è una questione di numeri, anche se i 750 consulenti del premier, censiti da alcune inchieste giornalistiche, impressionano. È una questione di competenze sottratte ai ministeri e attribuite alla presidenza del Consiglio: dal commissariamento, di fatto, degli uffici legislativi ministeriali da parte del dipartimento affari giuridici e legislativi di palazzo Chigi sino all’apice – inaudito nella sua sfrontatezza – della ventilata attribuzione a sei «supermanager» dipendenti dal presidente Conte del cruciale compito di gestire il Recovery Fund.

IL SECONDO NODO consiste nella configurazione dei rapporti Stato-regioni secondo la logica della sussidiarietà: un principio in base al quale la legittimazione all’azione politica ascende dal basso verso l’alto, a sancire la primazia delle regioni sullo Stato. Da qui sembra scaturire il pregiudizio politico favorevole di cui gli enti territoriali godono nei confronti dell’amministrazione centrale: un pregiudizio tale per cui le regioni possono sempre rivendicare le proprie competenze come originarie, scaricando sullo Stato l’onere di fornire la prova della propria legittimazione ad agire.

Non si spiega altrimenti come, nonostante i ripetuti fallimenti nel contenimento della pandemia, le regioni possano persistere nell’assunzione di atteggiamenti arroganti, contraddittori e irresponsabili senza patire conseguenze: nemmeno la revoca in dubbio dei progetti di autonomia differenziata (che, anzi, starebbero per ricevere un’accelerazione). È davvero impossibile immaginare un regionalismo in cui non vi sia spazio – valga un solo esempio – per un presidente di regione che apertamente incita a violare la normativa statale?

IL TERZO NODO deriva dall’aver ridotto il numero dei parlamentari senza aver prima modificato la legge elettorale, ingenuamente confidando nella successiva spontanea convergenza delle forze politiche verso un sistema proporzionale. Com’era prevedibile, gli interessi politici immediati e contingenti hanno rapidamente preso il sopravvento sulle nobili intenzioni di lungo periodo, riducendo la discussione sulla più importante delle leggi – quella da cui dipende la formazione della rappresentanza parlamentare – a calcoli spicci di convenienza partitica. Risultato: il Rosatellum è rimasto saldo al suo posto e, in caso di elezioni anticipate, sarà la legge con cui andremo a votare.

Tenuto conto che la destra unita sfiora oggi il 50 per cento dei consensi e che, al momento, un’alleanza tra Pd e M5S è quantomeno incerta, cosa questo potrebbe significare è presto detto: alla quasi totalità dei 147 collegi della camera attribuiti con il maggioritario, la destra potrebbe sommare almeno la metà dei restanti 245 collegi assegnati con il proporzionale (8 sono riservati agli italiani all’estero). Il totale arriva sulla soglia dei due terzi con cui si può modificare la Costituzione senza che sia poi possibile richiedere il referendum oppositivo. Al senato, con soglie di sbarramento implicite più elevate, per la destra l’esito sarebbe ancora più favorevole.

Aggrovigliati l’uno all’altro, i tre nodi rischiano di farsi matassa inestricabile, suscettibile di soffocare la Costituzione. Occorre al più presto avviare un duplice percorso volto a riequilibrare la forma di governo e le relazioni tra lo Stato e le regioni. Nel frattempo, approvare una legge elettorale rigorosamente proporzionale, a collegio unico nazionale e senza soglie di sbarramento (vale a dire una legge che dia a ciascuno il suo, senza favorire o danneggiare nessuno), è un’urgenza non ulteriormente procrastinabile.

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