I racconti di viaggio e i resoconti etnografici sono oggi considerati generi di scrittura completamente diversi, e per certi versi opposti: letterari, avventurosi ed evocativi i primi; scientifici e un po’ noiosi i secondi. Ma a lungo, tra l’Ottocento e la prima metà  del Novecento, viaggiatori, esploratori, scrittori d’avventura, geografi, etnografi e antropologi impegnati a visitare culture lontane ed esotiche non erano figure nettamente separate. La Francia degli anni Trenta, ad esempio, era un contesto di fortissima interazione fra arte d’avanguardia, letteratura, museografia ed etnologia, che si intrecciavano nell’esperienza della rivista «Documents» di Georges Bataille (1929-30), e poi nella missione Dakar-Gibuti e in quel suo resoconto al tempo stesso scientifico e letterario che è L’Africa fantasma di Michel Leiris.

Dalla Francia di quegli anni viene anche il visconte Gontran de Poncins, lontano discendente di Montaigne, che dopo una formazione artistica si dedicò al giornalismo free-lance e ai viaggi d’avventura. Consumato un lungo soggiorno nella Polinesia francese, nel 1938 decise di andare a vivere per un anno tra gli Inuit, o Eschimesi, come li si chiamava allora, del Canada settentrionale. Con l’appoggio dei missionari oblati – unica  presenza «bianca» organizzata nell’area – raggiunse un avamposto commerciale nella baia di Hudson, sulle rive del Mar Glaciale Artico; da qui, cominciò a stabilire contatti costanti con gli indigeni: li seguiva nelle spedizioni di caccia e passava lunghi periodi nei loro accampamenti, condividendone momenti di vita quotidiana, imparando i fondamenti della lingua, le tecniche di pesca e caccia e di costruzione degli igloo. Poi raccontò queste esperienze nel suo libro Kabloona –  parola inuit che sta per «uomo bianco» – che uscì negli Stati Uniti nel 1941, prima ancora che in Francia (1947), e che viene oggi tradotto in italiano da Adelphi: Kabloona L’uomo bianco (traduzione di Marco Rossari pp. 332, € 24,00), in una pregevole edizione che include un inserto di fotografie e disegni dell’autore.

Il suo successo in Europa è stato scarso, mentre negli Stati Uniti è diventato un classico della letteratura di viaggio, e al tempo stesso ha meritato le lodi di Bronislaw Malinowski, fondatore del metodo della «ricerca partecipante», per la sua sensibilità e precisione etnografica. In effetti, è un lavoro che intreccia (non sempre felicemente, per la verità) molte diverse dimensioni, di cui lo stesso autore scrive: «l’avventura ha due facce: una che mostra gli uomini in lotta con gli elementi, l’altra intenti a rammendare i calzini».

In un ambiente in cui la temperatura media è oltre i 30 gradi sotto zero e d’inverno arriva anche a meno 50, e in cui spesso non si può uscire dalla baracche o dagli igloo per più di pochi muniti, la lotta con gli elementi è perenne. Poncins racconta in prima persona i viaggi in slitta, le battute di pesca o di caccia alla foca, i congelamenti delle dita, ma anche il senso di benessere e di oblio del mondo che si prova nei rifugi caldi e puzzolenti, accanto ai lumi a olio che rappresentano l’unica flebile umana forma di resistenza alla infinita notte artica. E arrivano, qui, appunto anche i «calzini rammendati», ovvero la meticolosa attenzione alle tecniche quotidiane che consentono agli Inuit la sopravvivenza.

La costruzione degli igloo e l’organizzazione dello spazio al loro interno, la gestione delle slitte e delle mute di cani, le pratiche alimentari,  basate sull’ingestione di grandi quantità di pesce crudo preventivamente congelato, stanno al centro di attente descrizioni, e  la spiccata attitudine visuale dell’autore si esprime anche in disegni, foto e rappresentazioni grafiche. Nella attenzione al modo in cui neve e ghiaccio trasformano costantemente le linee del paesaggio e creano (o cancellano) infinite sfumature di colore, la cultura pittorica di Poncis si rende evidente. Ma l’aspetto più interessante, sul piano antropologico, è il suo tentativo di cogliere la vita sociale degli Inuit, nomadi che si aggregano in gruppi di pochi nuclei familiari e vagano su una superficie amplissima seguendo i ritmi delle stagioni e le relative disponibilità alimentari. Poncins cerca di coglierne l’ethos – i codici morali e comportamentali che regolano le interazioni personali, e anche a questo proposito le sue osservazioni hanno due facce.

Da un lato, non si fa problemi nell’esprimere un suo certo disgusto,  persino fisico, verso alcune abitudini degli indigeni, lasciando trasparire i più diffusi stereotipi coloniali (non pensano, vivono in un eterno presente senza capacità di programmare il futuro, non hanno una coscienza); insiste inoltre nel proiettare sugli Inuit la sua immaginazione del primitivo assoluto, dell’eterna e originaria «famiglia primitiva della Bibbia». Dall’altro lato, tuttavia, Poncis  è anche attento a riflettere sulle proprie proiezioni etnocentriche, e a porsi metodologicamente «dal punto di vista del nativo», comprendendo come il proprio sconcerto sia spesso dovuto alla sola incomprensione.

Estraneo ai miti neoromantici, Poncins non va in cerca di autenticità e si focalizza invece sui fenomeni sincretici: l’uso indigeno della tecnologia occidentale, ad esempio, o il bellissimo racconto dello sciamano  che, compreso il potere della nuova religione dei missionari, «da stregone si era trasformato in catecumeno».  Anche in se stesso, sulla via del ritorno, scoprirà effetti trasformativi e sincretici, e la sensazione di non potersi descrivere «come un individuo che è il prodotto di una tradizione, di un luogo, di un ambiente, bensì semplicemente come un essere umano» è anch’essa un modo possibile di mettere a fuoco la propria esperienza antropologica.