Gombrowicz, in una lingua sfrenata, i trionfi dell’inautenticità
Rita e Witold Gombrowicz a Vence alla fine degli anni sessanta
Alias Domenica

Gombrowicz, in una lingua sfrenata, i trionfi dell’inautenticità

Classici polacchi Dal testo di «Ferdydurke», uscito nel 1938, alla «autotraduzione assistita» cui lo stesso Witold Gombrowicz sottopose il romanzo quando era esule in Argentina, fino alla attuale «reinvenzione» di Michele Mari: dal Saggiatore
Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 10 gennaio 2021

I teorici della letteratura come polisistema sostengono che, a determinate condizioni, anche la letteratura tradotta può assumere una posizione centrale nel sistema di una letteratura nazionale. La nuova traduzione di Ferdydurke di Witold Gombrowicz (a cura e con postfazione di Francesco M. Cataluccio, traduzione di Irene Salvatori e Michele Mari, autore anche della prefazione, Il Saggiatore, pp. 336, € 22.00), il romanzo polacco più importante del Novecento, ha le potenzialità per farlo. Capolavoro di sovversione linguistica e mentale, di liberazione spassosamente grottesca da ogni cliché e divisa sociale, di assurdo lucidamente programmato, a partire dal titolo, che vuol dire… Nulla, non vuol dire nulla, è una beffa, un nonsense sul quale molte ipotesi sono state fatte: la più accreditata è che sia un’eco distorta di Freddy Durkee, personaggio di Babbitt, romanzo di Harry Sinclair Lewis.

La vicenda

Quando Gombrowicz cominciò a lavorare al suo romanzo, Sinclair Lewis – che aveva vinto il Nobel nel 1930 – era già popolarissimo anche in Polonia: potrebbe dunque darsi che questo titolo, Ferdydurke, sia uno dei primi indizi della tendenza, poi tipica di Gombrowicz, alla ripresa distorta o demolitoria dei Grandi, suoi antagonisti nella lotta per la gloria, culminata nel «pamphlet» contro Dante. Il Babbitt di Sinclair Lewis sbeffeggiava certo filisteismo americano. E Ferdydurke?

Il narratore e protagonista, Giuso, ha molto in comune con l’autore: è uno scrittore in erba e il suo primo libro è stato appena giudicato «immaturo» e stroncato dalla critica, proprio come l’esordio di Gombrowicz. Nel mezzo del cammin della sua vita Giuso si ritrova – dice – nella selva oscura ma «verde» dell’immaturità, da dove giunge a salvarlo un professore, Pimko, che lo riporta così com’è, nel suo corpo di trentenne, a scuola.

Hanno inizio dunque le avventure di questo Peter Pan disadattato, che vive non da brillante condottiero sull’isola che non c’è, ma da goffo gregario su quella che c’è, scisso fra il desiderio di essere all’altezza degli adulti e il sogno di una gioventù che ormai non gli appartiene, outsider ovunque, sospeso fra il non più e il non ancora, perennemente in-between.

La prima parte del libro coincide con l’inferno della scuola: professori compresi della loro sublime missione si contentano di ripetere che «Słowacki fu sommo poeta», dogma che in quanto tale non necessita di essere capito ma solo creduto, mentre alunni sgraziati si industriano nel «fare i grandi», chi dicendo parolacce, chi professando nobili ideali – dissacrazione e sacralizzazione entrambe «foderate» di inautenticità.

La seconda parte è il purgatorio della famiglia moderna – borghese, progressista, impegnata nella società – presso la quale il premuroso Pimko mette Giuso a pensione affinché si affranchi dalla sua affettazione di pseudo-adulto con un bagno rigeneratore nel giovanilismo.

Equivoci, compromissioni, ammucchiate (o «mischie» – equivalenti del caos primordiale nel quale ogni forma inautentica ritorna e si annulla) si susseguono finché, nella terza parte, Giuso scappa con una nuova guida, Mentino, che lo conduce fuori città alla ricerca dell’amore puro: sarà un semplice, incorrotto «garzone» a servire le istanze omoerotico-egalitarie di Mentino, e verrà rintracciato in una tenuta nobiliare di campagna. Peccato che anche questo presunto paradiso in cui si coltivano i valori tradizionali si rivelerà infantile e inautentico. Non esiste – questa la conclusione – purgatorio, né paradiso, solo un inferno di facce deformate dall’inautenticità.

A distanza di quasi un secolo, la satira che Gombrowicz allestisce tanto della missione della scuola, quanto del mito progressista e del feticcio tradizionalista, mostra ancora più chiaro il suo valore paradigmatico, à la Swift. Come ogni grande opera, inoltre, Ferdydurke non è solo satira, e i problemi che tratta gravitano nell’orbita esistenzialista dell’io a confronto con l’altro, dell’essenza e l’esistenza, della forma falsa e l’aspirazione all’autenticità; ma a determinarne la grandezza è soprattutto la lingua, sfrenata eppure precisissima, densa di originali metafore, sottili giochi linguistici, pregnanti forzature grammaticali, stilizzazioni. Una sfida per ogni traduttore.

La storia editoriale

Gli italiani conoscevano fin qui due Ferdydurke: quello tradotto dal francese da Sergio Miniussi e pubblicato da Einaudi nel 1961, e quello edito da Feltrinelli nel 1991 nella versione dal polacco di Vera Verdiani, separati da differenze assai maggiori di quelle che normalmente distinguono una traduzione indiretta da una diretta, e che si spiegano solo con la peculiare storia editoriale del romanzo. Fondamentale per apprezzare anche la novità di questa edizione, essa in estrema sintesi è la seguente: Gombrowicz pubblicò Ferdydurke nel 1938; esule in Argentina, vagheggiava di tradurlo, ma la lingua del romanzo era troppo ardua per essere riversata nel suo appena masticato spagnolo; di qui l’idea di un’autotraduzione assistita, per lavorare alla quale venne nominato un «comitato di traduzione» cui Gombrowicz sottoponeva – nella sala da biliardo di un caffè – la propria bozza di versione, discutendo e rielaborando a fondo ogni capitolo. Ne venne fuori un altro testo, edito nel 1947, uguale e diverso rispetto a quello originario. Ma la storia non finisce qui: quando venne prospettata a Gombrowicz la possibilità di pubblicare il romanzo in Francia, intuendo che questo avrebbe potuto aprirgli le porte del successo in Europa, non lo fece tradurre dal polacco, bensì – sotto la sua supervisione – dalla riscrittura spagnola, già adattata al lettore occidentale. E quando ne approntò una nuova edizione polacca, introdusse modifiche ispirate a quella stessa riscrittura.

Dove sta l’originale

Fra tutti i miti che questo romanzo contribuisce a demolire c’è dunque anche quello dell’«originale» come categoria metafisica degli studi letterari. La sua stessa storia di passaggi mentali e testuali da una lingua all’altra fa di Ferdydurke uno dei capostipiti di certa letteratura multilingue odierna. Ora, l’eco delle strategie autotraduttive di Gombrowicz è ben udibile sotto certe scelte dei due traduttori, uno dei quali, Michele Mari, «l’ha reinventata nella nostra lingua», informa il lancio editoriale. La prosa di Gombrowicz richiede in effetti che si colga, e dunque si renda, la creatività del lessico, della morfologia, della sintassi. La nuova traduzione, pur non esente da pecche, presenta sotto questo aspetto molte soluzioni interessanti, in uno stile fluido, vivace, che strappa risate e dunque rivitalizza Ferdydurke, riproducendo un po’ quanto lo stesso Gombrowicz affermò di aver sperimentato affrontando la traduzione in spagnolo: «quel libro per me morto cominciò a dare segni di vita».

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