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Goltzius, il sangue e il latte

Goltzius, il sangue e il latteHendrick Goltzius, "Stervende Adonis", 1609, Amsterdam, Rijksmuseum, Alamy Foto Stock

Nati sotto Saturno / Manierismo nordico: Hendrick Goltzius Nelle Vite di Karel van Mander, il Vasari settentrionale, è una delle poche personalità nevrotiche fra le socievoli e giudiziose: ma le disgrazie non vietano un furore inventivo che eccelle nel bulino e nelle matite

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 8 agosto 2021
Hendrick Goltzius, “Goltzius’ rechterand”, 1588, Haarlem, Teylers Museum

 

Bisogna sfogliare le pagine delle vite degli illustri pittori fiamminghi, olandesi e tedeschi di Karel van Mander (sezione portante del suo Schilder-Boeck, edito nel 1604) per intercettare protagonisti e comprimari dello splendido canto del cigno del tardo manierismo europeo tra Praga, Monaco di Baviera, Anversa, Haarlem, Utrecht, negli anni in cui ormai i Carracci e Caravaggio guidano il ritorno alla natura facendo presto scuola in tutta Europa. Al contrario di Vasari, lo scrittore (e pittore) fiammingo non arricchisce di molto la rassegna di artisti «egocentrici, lunatici, nevrotici, ribelli, infidi, licenziosi, stravaganti (…) assorti, solitari, cogitabondi”, secondo l’efficace elenco di casi ‘clinici’ stilato nella prefazione dello studio che i Wittkower dedicano ai Nati sotto Saturno (edito nel 1963 e nella prima edizione italiana Einaudi nel 1967), dove non per caso van Mander è pressoché trascurato come fonte utile.
Deve esserci una ragione strategica, legata alla celebrazione di un certo carattere ‘nazionale’, per la quale van Mander, contrariamente a una voce come quella di Vasari, non indulge nell’aneddotica sugli artisti come personalità borderline, ma ci presenta piuttosto figure socievoli, equilibrate, giudiziose, misurate in ogni momento della loro vita, privata e professionale, devote all’etica del lavoro e quasi sempre provenienti da famiglie rispettabili se non agiate. Nessun eccesso, nessuna deviazione capricciosa in queste carriere lineari, forse un riflesso benefico della riforma dei costumi che si andava allora affermando in quelle terre attraversate da tensioni religiose.
L’avarizia e la paura della morte di Heemskerck, iperbole di Michelangelo prima che lo diventi un pittore di altra patria come El Greco, qualche eccesso alcolico di Frans Floris, per nulla visibile nelle sue ordinate composizioni ideate da sobrio evidentemente, non lasciano molte altre tracce di caratteri eccentrici nel suo testo. Fino a quando ci si imbatte nella ricostruzione del profilo di Hendrick Goltzius (Mulbracht 1558-1617), con il quale van Mander ebbe una lunga consuetudine, anzi un vero e proprio sodalizio nella Haarlem di fine Cinquecento. Il racconto si segue bene nella sequenza incalzante delle disgrazie. Nei primi anni di vita, Goltzius, un bambino «ingegnoso e pieno di spirito», attratto dal fuoco, si bruciò gli arti superiori rimanendo con una mano offesa, senza per questo perdere la vocazione al disegno, in un inarrestabile furore inventivo che lo portò, mentre imparava a dipingere sul vetro per collaborare con il padre maestro di quell’arte, a campire le pareti di casa con «cammelli, elefanti e altre cose analoghe». In seguito, dopo avere coltivato il proprio talento nel campo dell’incisione per il fiorente mercato editoriale, l’artista, verso i vent’anni, si sposta a Haarlem, allora rifugio tollerante di molti talenti in cerca di ripari sicuri in quei tempi in cui i Paesi Bassi erano attraversati da venti di guerra anche religiosa. Mentre fioccano gli ingaggi per incarico dell’editore Aux Quatre Vents, all’inizio sotto la tutela dell’incisore Philippe Galle e poi sempre con maggiore autonomia, Goltzius cade in una profonda crisi personale. Una «mesta malinconia», aggravata da «una grave malattia o consunzione che gli fece sputare sangue dai polmoni per ben tre anni», sembra non lasciargli scampo, e allora «Goltzius decise di intraprendere il viaggio in Italia, malgrado la sua debolezza, nella speranza che ciò potesse essergli utile (…) prima della morte».
Dopo tappe piene di incontri significativi a Monaco di Baviera, Venezia, Bologna e Firenze, giunge a Roma nel 1591, dove la «contemplazione delle eccellenti opere d’arte» lo rimette in forma, e l’artista ritrova entusiasmo e voglia di vivere, anche se appena rientrato in patria «la sua malattia ricomparve, opprimendolo con tale forza ch’egli si disidratò completamente e dovette bere latte di capra per lunghi anni, oppure succhiare direttamente dalle poppe femminili, nella speranza di guarire». Questo nutrimento forzato, degno di essere tradotto in pittura in una variante iconografica della storia di Cimone e Pero, ha effetti miracolosi e «contrariamente alle aspettative altrui, egli recuperò la salute».
Nel medaglione di van Mander, l’informazione storica prevale però rispetto all’aneddotica che potrebbe spingere a una «interpretazione chimerica dei dati biografici e artistici», secondo l’avvertita diffidenza dei Wittkower a proposito di certe letture in chiave psicanalitica che hanno interessato l’interpretazione delle vite degli artisti tra Otto e Novecento. E non è un caso che quella fonte sia stata la traccia costante per i testi introduttivi e le schede del catalogo della fondamentale mostra dedicata nel 2003 all’artista dal Rijksmuseum, dal Metropolitan e dal Toledo Museum of Art, firmata da un gruppo di specialisti tra i quali l’autore di un successivo volume (2013) dedicato a Goltzius pittore, Lawrence W. Nichols. Sorprende, al di là di questo caso, la dovizia bibliografica su quel momento bellissimo della storia dell’arte nel Nord Europa; monografie e cataloghi di esposizioni di riferimento permettono di affrontare i profili di Cornelis Cornelisz van Haarlem, Joseph Heintz il vecchio, Joachim Wtewael, Abraham Bloemaert, Hans Rottenhammer, Willem van Tetrode, Adriaen de Vries, per non parlare di Giambologna. Niente di analogo per la Firenze dello Studiolo di Francesco I, luogo di speciale elaborazione artistica che, in un ideale albero genealogico del manierismo nell’Europa del Cinquecento, sta in mezzo tra la Francia di Fontainebleau e appunto la Praga di Rodolfo II, la Monaco di Guglielmo V o la Haarlem di… Goltzius e van Mander. Città gemellate, verrebbe da dire, grazie alla circolazione dei modelli diffusi allora attraverso l’arte incisoria. Goltzius è il divulgatore di fiducia di Bartholomäeus Spranger, il pittore di Rodolfo II, ma anche trasferisce sulla lastra di rame gli originali di Marten De Vos, Stradano e di Anthonie Blocklandt, il più fedele interprete di Parmigianino al Nord dopo Primaticcio. Senza dimenticare lo sguardo retrospettivo verso i grandi padri dell’arte tedesca e neerlandse, da Dürer a Luca di Leyda.
Proprio una serie di rami di Goltzius sul tema della Passione (1596-’98), ispirata in modo diretto a incisioni di Luca di Leyda, trova fortuna a Milano, una città in cui il manierismo non sembra tramontare mai, visto che la serie è dedicata all’arcivescovo Federico Borromeo: come se venissero allora confermate le passioni per quel mondo nordico che aveva già affascinato Spanzotti, Defendente Ferrari e Gaudenzio Ferrari, e a quell’altezza cronologica almeno il Cerano. La passione per Luca di Leyda nell’Europa del tempo trovava quindi una via preferenziale nella circolazione e nella rielaborazione delle sue invenzioni incise, anche se Rodolfo II cercò di impossessarsi del Trittico del Giudizio Universale che la città di Leida considerò inalienabile anche di fronte alle pressioni dei suoi agenti: e l’impressionante macchina si trova così ancora oggi allo Stedelijk Museum di quell’antica città universitaria.
Presto, il grande traduttore venne a sua volta molto copiato, ma senza autorizzazione, e per questo nel 1595 Goltzius ottenne un privilegio di Rodolfo II per proteggere il copyright dei suoi lavori. Capace di intraprendere ad Haarlem un’attività di editore, rompendo il monopolio di Anversa, Goltzius non fu solo un mero divulgatore, come i Sadeler, prigionieri del fiorente mercato editoriale del tempo, ma anche un grande inventore. Ne cogliamo il talento, che lo rende un modello fondamentale per il giovane Rubens, nella sua attività di ritrattista, sempre in funzione della traduzione incisa. I suoi disegni a due matite, molto nel gusto di Federico Zuccari, sono talvolta arricchiti da inchiostri diluiti (per restituire i toni cerulei degli occhi, le sfumature rosse di barbe e capelli), come ci ricorda l’indimenticabile autoritratto del museo di Stoccolma e la sua variante all’Albertina di Vienna: accorgimenti ancora manieristi, ma con un’apertura verso il Seicento degli effetti speciali, non insolita, vista la evidente continuità tra tardo manierismo e barocco per sintetizzare in modo brutale quanto avvenne in molti centri artistici d’Europa. Il segno incisivo delle sue matite è quello di un intagliatore di cristalli, o di una artista nato in mezzo alle vetrate, tecnica artistica a cui fu avviato dal padre. Quel modo affilato di restituire i contorni dei volti degli effigiati non ha nulla a che vedere con le pressoché coeve morbide pastosità neo-correggesche di Barocci, a cui pure Goltzius può essere avvicinato per spirito inventivo e qualità di disegno.
Sfilano, anche solo nel ricordo delle fonti, perché molte opere sono perdute, i volti di amici e colleghi, in una indimenticabile galleria di ritratti che comprende, tra gli altri, Johann Sadeler e Christoph Schwartz, Gerolamo Muziano e Jacopo Palma il giovane, Giambologna e Pietro Francavilla. Uno spaccato eloquente delle frequentazioni internazionali di quello spirito inquieto.

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