Arriva alla conclusione la trilogia animata che reinventa il mito di Godzilla e l’universo di personaggi e creature che girano attorno al kaiju inventato da Ishiro Honda e Eiji Tsuburaya nel 1954. È infatti in questi giorni nei cinema giapponesi Godzilla: The Planet Eater, lungometraggio animato che come i due precedenti capitoli, Godzilla: Il pianeta dei mostri e Godzilla: Minaccia sulla città, usciti rispettivamente nel 2017 e nel 2018, è diretto da Kobun Shizuno e Hiroyuki Seshita. La trilogia è frutto dell’immaginazione di Gen Urobuchi, scrittore e sceneggiatore che reimmagina la storia del lucertolone ambientando la storia in un futuro lontanissimo su un pianeta terra dove, all’apparenza, non esistono più esseri umani, ma che è dominato da Godzilla e da altre creature mostruose. Come gli altri due film anche questo dovrebbe essere distribuito dopo il debutto nelle sale giapponesi su Netflix i primi mesi dell’anno prossimo.

Il primo capitolo della trilogia raccontava il viaggio di ritorno verso la terra di un’astronave con i discendenti di quelli che millenni prima erano gli esseri umani, accompagnati da due razze aliene, gli Exif e i Bilusaludo, i primi un popolo religioso propenso per l’unità cosmica, i secondi convinti che Godzilla possa essere sconfitto solo con la loro avanzata tecnologia. Nel secondo film si scopriva che la terra ospitava una mutazione della razza umana dalla struttura e credenze tribali, gli Houtua, popolo dotato di poteri telepatici e che adora la mitica figura di Mothra.

Godzilla rimane per la maggior parte del tempo pietrificato come l’avevamo lasciato nel secondo film, mentre nel corso di buona parte del lungometraggio vengono affrontate tematiche religiose e teleologiche assai interessanti. Molti di coloro che erano sopravvissuti alla battaglia fra Godzilla e Mechagodzilla si rivolgono e pendono dalle labbra del popolo degli Exif, e specialmente da quelle del loro sacerdote Metphies, che annuncia l’avvento di un essere che farà finire ma allo stesso tempo cominciare tutto. Questo kaiju, che viene rappresentato in maniera molto originale con legami con la fisica quantistica, è una rielaborazione di King Gildorah, l’arcinemico storico di Godzilla introdotto nell’universo dei kaiju nel 1964 sempre da Eiji Tsuburaya.

Come succedeva negli altri capitoli anche questo è un film molto parlato e lento, le scene di azione e di combattimento sono poche e concentrate verso la fine. Certo non è un male di per sé adottare uno stile contemplativo: i lungometraggi migliori di Mamoru Oshii, solo per citare un esempio, sono dei capolavori anche grazie al loro ritmo denso e lento. Purtroppo però le buonissime idee del soggetto e dell’ambientazione – cambiare completamente le carte in tavola ed usare il mito di Godzilla per esplorare il senso dell’universo e la posizione dell’essere umano al suo interno, mettere in discussione cioè l’anthropos e portare alla conclusione l’Antropocene – non trovano un buon corrispettivo nei dialoghi e nella realizzazione dei personaggi.

Spesso i concetti filosofici sono ripetuti e la verbosità alla lunga lascia un senso di vuoto, e ad appesantire il tutto contribuiscono anche lo stile e la tecnica animata usata per tratteggiare gli esseri umani. Le animazioni funzionano molto di più quando sono al servizio dei kaiju, il Godzilla è uno dei migliori visti in tutti questi sessantaquattro anni. Sebbene non riuscitissima, in conclusione si può certamente dire che questa trilogia non manca certo di originalità e di una volontà di osare che però, molto probabilmente, non sarà troppo gradita allo spettatore legato alla figura di Godzilla un po’ leggera e camp divenuta popolare fra gli anni sessanta e settanta.

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