Tutti in Italia, adesso, lo piangeranno. Lacrime di coccodrillo. Negli ultimi decenni, salvo gli happy few, è stato ignorato, e i suoi film mai distribuiti. Come il suo «vicino di casa» Jean-Marie Straub, anche lui ormai stabile a Rolle, paesino della Svizzera che si affaccia sul lago di Ginevra. Come Dreyer, di cui ricordo l’accoglienza a Venezia di Gertrud, da farci vergognare.

HA FATTO RICORSO al suicidio assistito, stanco di aver vissuto così a lungo. (Senza assistenza lo hanno fatto anche i novantenni Lizzani e Monicelli). La sua opera si è però sempre più ringiovanita in film da adolescente smanioso di sperimentare. La sua eredità sarà lunga da comprendere sino in fondo, è anzi un pozzo senza fondo.
Io ho scritto su di lui. Ma adesso preferisco ripercorrere i miei rapporti personali con Godard. Il primo saggio che ho pubblicato, nel 1960, riguardava i «Cahiers du Cinéma». Lo accompagnavo con un dizionarietto dei critici, dedicando voci distinte a Jean-Luc Godard e ad Hans Lucas, il suo pseudonimo ho saputo dopo (così come ad Eric Rohmer e a Maurice Schérer, che invece è il suo vero nome).
L’ho incontrato a Roma nel 1963, a una conferenza stampa dove ha denunciato, nell’indifferenza dei giornalisti, lo scempio che Carlo Ponti aveva fatto di Le mépris per l’edizione italiana (Il disprezzo). Gli ho chiesto di intervistarlo e mi ha accolto, io timido con un enorme magnetofono, lui un po’ frettoloso, nella hall del suo albergo. Credo di aver visto passare di corsa Anna Karina. Questa prima intervista pubblicata è stata poi seguita da un’altra fatta a Parigi, stavolta con più calma. Gli ho chiesto poi di avere alcune sue sceneggiature, che mi ha puntualmente spedito e che ho pubblicato. (Quella di Le mépris, nel frattempo visto con entusiasmo in quel mio primo viaggio transalpino, è opera d’arte a sé). In un altro suo viaggio a Roma mi ha addirittura proposto, convocandomi da Canova a Piazza del Popolo, di collaborare con lui a un film su una ragazza siciliana comunista che non ha mai fatto.
Nel 1965, al Lido, mi aveva chiesto di accompagnarlo dal proiezionista per raccomandargli di non accendere le luci sul nero che conclude Pierrot le fou. Il proiezionista ha fatto presente di essere un professionista. All’uscita ho incontrato un critico italiano di nome che mi ha detto: «Il solito divertissement alla francese». La Nouvelle vague in genere, non solo Godard, ha avuto da noi difficoltà a essere digerita.
Avevo proposto a Pasolini di pubblicare per Garzanti una scelta dei suoi scritti critici. Nel 1967, al Lido, dove veniva proiettato La chinoise, ho organizzato un pranzo dove i due si sono conosciuti. La prefazione non ha però tratto gran beneficio da quell’incontro, mi pare.
Nel 1969 Renzo Renzi mi ha proposto di curare un libro per la sua collana di Cappelli su Le vent d’est, che il Groupe Dziga Vertov era venuto a girare nei dintorni di Roma (lo produceva Marco Ferreri). Ho assistito e registrato per diverse mattinate le «sedute» che si svolgevano al Filmstudio. Godard sembrava accettare con sottomissione le requisitorie di Daniel Cohn-Bendit e di altri (non ricordo se c’era anche Jean-Pierre Gorin). Non lo sopportavo. Ho preferito rinunciare piuttosto che doverlo criticare.

NEL 1984, al Salso Film & Tv Festival di Salsomaggiore che dirigevo, ho organizzato un pomeriggio proiettando Troisième état du scénario du film Passion (la «presceneggiatura» in video), Passion (1982) e Scénario du film Passion (una «postsceneggiatura» sempre in video). Godard, disponibilissimo e mansueto, ha introdotto e discusso con gli spettatori i tre film. Lo abbiamo registrato ma i nastri sono andati persi nei meandri nella sede regionale di Rai3 a cui li avevamo mandati per un «servizio» (chissà se una talpa non riesca un giorno a ritrovarli). Enorme successo, ovviamente.
Nel 1994, quando dirigevo la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, volevo far vedere uno dei suoi ultimi video. Mi ha invitato a Rolle e me ne ha fatti vedere tre. Siamo poi andati a pranzo a mangiare hamburger (Rossellini preferiva Truffaut, da lui stilisticamente così lontano, a Godard, a lui così vicino, per la bouffe, mi aveva detto). Lui silenzioso, io imbarazzatissimo. Poi, tornati nella sua casa-ufficio-laboratorio, me li ha concessi tutti (Les enfants jouent à la Russie, Histoire(s) du cinéma 2A/2B e JLG/JLG), raccomandandomi solo, disegnandomi anche uno schema, di rispettarne i requisiti audio (che io non ero assolutamente certo di poter garantire).
Talvolta però è stato scostante. Nel mio Rossellini visto da Rossellini (1992) cito una sua memorabile frase su India Matri Bhumi. Gli ho chiesto di registrarla con la sua voce. Si è rifiutato. Peggio. Sempre a Pesaro, nel 1998, volevo mostrare le Histoire(s) du cinéma complete (il suo capolavoro?). Me le aveva promesse. Ci siamo visti a Buti dove Straub aveva messo in scena, nel teatrino locale, Sicilia!. Ha tergiversato. All’ultimo momento aveva preferito darle al Cinema Ritrovato di Bologna. Ho dovuto precipitosamente ripiegare su un omaggio con i suoi classici e un libro di accompagnamento.
L’ho visto l’ultima volta al funerale di Danièle Huillet a Parigi, accompagnato da Anne-Marie Miéville. Speriamo che non venga «monumentalizzato». Per me, per noi, per voi rimanga una stella polare.