Godard, un’immagine del silenzio
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Godard, un’immagine del silenzio

L'intervento Dialogo tra Jean-Luc Godard e il critico cinematografico C.S. Venkiteswaran, in occasione del premio alla carriera conferito al regista dal Film Festival del Kerala, nel mese  di marzo 2021
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 17 settembre 2022

(Pubblicato nell’agosto 2021 su filmcritica)  

 Siamo molto felici di averle conferito questo premio alla carriera – dice la direttrice artistica del festival, Bina Paul – , perché il suo lavoro ha influenzato molto i filmakers che lavorano nel Kerala, anche se in generale qui in India il suo lavoro è conosciuto un po’ da chiunque. La conversazione di oggi verrà condotta da C. S.Venkiteswaran, un critico cinematografico molto conosciuto, intanto la vogliamo ancora ringraziare per aver accettato il premio.

J.L. Godard: Vi ringrazio. Dove si trova il Kerala, da un punto di vista geografico?

B. Paul: E’ lo stato dell’India situato più a sud, in assoluto, si trova nella costa occidentale, ed è anche riconosciuto come lo stato maggiormente e meglio sviluppato nell’unione indiana.

La cultura cinematografica, in particolare, è un aspetto molto radicato nei programmi di studi che vengono offerti in Kerala. Una traduttrice la potrà inoltre aiutare nel corso della conversazione, ogni volta che si renderà necessario.

J.L. Godard: Vi ringrazio per questo supporto di traduzione che mi avete offerto, anche perchè alla mia età l’inglese l’ho un po’ dimenticato…

Traduttrice: Sono felice di essere qui per lei Mr Godard e di poter facilitare, quando necessario, la comunicazione.

C. S. Venkiteswaran:  Lei viene descritto spesso come il più “giovane” filmaker al mondo, nel suo cinema sono sempre coinvolti sia aspetti estetici, sia tecnici, sia linguistici, oltre che istituzionali. I suoi film costituiscono un mondo a parte nel cinema, lei come cineasta ha sempre voluto oltrepassare i limiti stessi del mezzo, sia da un punto di vista tecnico che estetico, e sempre in modo provocatorio e politicamente sovversivo…

J.L. Godard:  Oggi non sono più il più giovane dei cineasti…sono piuttosto il più vecchio.

C. S. Venkiteswaran:  No, no, lei resta sempre il più giovane… non si senta offeso…

Un filosofo come Giorgio Agamben ha osservato che è contemporanea [1]la persona che riesce a  percepire il buio della sua epoca come qualcosa di cui occuparsi. La persona contemporanea, cioè, è quella capace di cogliere questo lampo di oscurità che proviene dal suo proprio tempo. Così è naturale oggi parlare della pandemia anche perché la circolazione del Covid ha reso in tutto il mondo il cinema difficile, se non proprio impossibile. Il cinema vive sulla prossimità delle relazioni sociali sia nelle sale che nei festival. La paura del contagio ha reso tutto questo difficile e pericoloso. Come pensa che il cinema risponderà a questa sfida determinata dalla pandemia – lei a un certo punto ha osservato che il virus è una forma di comunicazione – e qual è la lezione che il cinema può o dovrebbe apprendere da questa presenza del virus?

J.L. Godard: Noi non conosciamo molto del virus a parte quello che ci dicono gli scienziati, e non conosciamo molto neppure il cinema, non siamo che agli inizi…Visto che prima lei ricordava i miei inizi nel cinema, penso che al tempo in cui ho cominciato avevo già superato i venticinque anni, anche se all’epoca mi dicevo che dovevo fare qualcosa prima dei venticinque anni, perché  avevo sentito dire che Orson Welles aveva girato Citizen Kane a venticinque anni, perciò dovevo assolutamente fare qualcosa prima…Ma allora non sapevo quasi nulla, mia madre sceglieva per me della buona letteratura….ma ora, venendo al discorso del virus, certo, possiamo dire che causa una malattia, ma la malattia fa parte dell’umanità, e noi dobbiamo imparare dalla malattia, specialmente oggi, ma anche in passato. C’è una sorta di malattia dell’informazione, il mio lavoro (my job, come dicono gli americani), che nel mio caso è al tempo stesso un lavoro e un hobby, mi porta a preoccuparmi solo della malattia del cinema, e anche i film che mi avete chiesto di inviarvi al Festival, i quattro o cinque titoli che vi ho mandato, hanno tutti a che fare con la malattia, come per esempio L’orgoglio degli Amberson, che ha a che fare  con la malattia della famiglia o come Arsenal di A. Dovženko che ha a che fare con la malattia e con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, poi …non ricordo quali altri film vi ho inviato…

Tutto questo per dire che sono soprattutto preoccupato del cinema, mentre la gente, i critici, di solito dicevano che quello che mi preoccupava e mi impegnava era la politica, la rivoluzione, ma posso dire che ciò che mi coinvolge e mi preoccupa sempre di più è il cinema, sono i film, e la realtà. Che cos’è la realtà? E come si può fare per afferrarla, per cogliere questa realtà, così come facevano i fratelli Lumière nei loro primi film? 

C. S. Venkiteswaran:  Ora molto cinema passa necessariamente attraverso le piattaforme, diversi festival vengono fatti online, e credo che questo vada a discapito della qualità essenziale del cinema inteso come arte pubblica, che ha cioè a che fare con un pubblico. Adesso invece quell’aspetto si perde e il cinema passa su schermi sempre più piccoli, sui cellulari, perdendo quella qualità peculiare che consisteva appunto nel suo aspetto pubblico, e facendolo così diventare una questione privata, individuale. In una sua celebre affermazione lei ha fatto notare che il cinema non è mai esistito, ma è sempre solo stato proiettato. Questi cambiamenti che stanno avvenendo nel modo di fruire il cinema, stanno modificando e cambiando i confini del cinema stesso?

 J.L. Godard: il cinema non esiste, ma può essere solo proiettato. Sì, questa cosa la penso ancora…quando ho cominciato a fare del cinema, in Francia il cinema era una sorta di situazione tecnico-religiosa, chiusa. A poco a poco ho cominciato a farne parte e ho cominciato a imparare le regole di quel mondo, parlo del mondo del cinema e non del mondo in generale.

Credevo che la produzione fosse l’aspetto più importante del cinema, invece poi mi sono andato sempre più convincendo che la questione più importante è la distribuzione, e oggi questo è ancora più evidente, anzi, la distribuzione ha soffocato la produzione mettendosi al servizio del pubblico.  Appena un piccolo esempio: quando ero agli inizi, in Francia, dopo la seconda guerra mondiale e la liberazione della Francia, lo stato aveva una compagnia di produzione che si chiamava U.G.C.

(Union General Cinematographique) che non esiste più per quanto riguarda la produzione, ma che nello stesso tempo aveva fondato una società di distribuzione che si chiamava A.G.D.C., e questa società è decaduta, o meglio, è stata la stessa U.G.C. che da produttore si è reso distributore, mentre la vecchia società di distribuzione non ha prodotto che due film, uno di Robert Bresson e uno di Georges Rouquier. Quindi si vede che molto presto, dopo la fine della seconda guerra mondiale, la società di produzione cinematografica di stato ha smesso di produrre dei film, per passare invece alla distribuzione. E questo, ancora una volta, ha a che fare con la religione, perchè Cristo a un certo punto ha cominciato a distribuire il pane…E anche il virus, a suo modo, distribuisce…Oggi sarebbe interessante sapere in quale modo il virus produce, ma questo non interessa, ci si preoccupa soltanto di come si distribuisce…E poi – aggiunge Godard – distribuire il pane è una buona cosa, ma produrre il pane è ancora meglio.

C. S. Venkiteswaran:  La situazione degli anni ’60, di cui i suoi film si sono molto occupati e la situazione di oggi; la guerra in Vietnam e la Nouvelle Vague, l’idea di internazionalismo nella politica e nella cultura allora era nell’aria…. C’è un rapporto tra le due situazioni, sono per lei in qualche modo legate….

J.L. Godard: C’è qualcosa di interessante da dire nei confronti del virus. Qui, dove mi trovo, in Svizzera le persone lo chiamano al femminile: la Covid, io invece lo chiamo al maschile, le Covid.  Non so se il virus sia maschile o femminile, penso che sia qualcosa che sta in mezzo tra i due, una terza cosa, del resto il numero 3 mi interessa da sempre, e quindi….non è facile da dire….Penso a molte cose diverse nello stesso tempo, ma esprimerle non è semplice.  Sempre a proposito del virus penso anche che il cinema sia in sè un po’ come una malattia, e che sarebbe molto interessante pensare non tanto alla distribuzione del virus, che coincide con la distribuzione dei morti, ma con la produzione del virus, perchè, nella produzione, intuitivamente, posso attribuire al virus quell’aspetto sia di documentario che di fiction che attribuivo al cinema. Il documentario è una parte cruda sia del cinema che del virus… Tutta la gente ama il documentario sul mondo, tuttavia, la gente può vivere in povertà, ma non la può immaginare: così ho risposto per strada a una persona che mi aveva posto una domanda su questo argomento. E lo penso davvero.

il documentario non deve entrare per forza in relazione con la povertà delle persone, ma la deve immaginare, e, al contrario, può dover documentare una finzione. Io accetto la pubblicità, la pubblicità dura poco, pochi minuti, ma che cosa accadrebbe se una pubblicità assumesse la durata di un’ora e mezza circa, quella cioè di un film? E mi ricordo benissimo che il mio primo tentativo di realizzare un film pubblicitario venne rifiutato, perché durava 2 ore (dice, ridendo). Sì, si trattava di una pubblicità di rasoi, aveva a che fare con il radersi…

A questo punto è Jean-Luc Godard che pone a sua volta una domanda a C. S. Venkiteswaran.

J.L. Godard: Lei sa come creare un’immagine del silenzio? Lei, cioè, può pensare o mi può descrivere un’immagine del silenzio? Io ora mi trovo in Svizzera e sto guardando fuori dalla finestra, e in questo momento sta nevicando… Uno scrittore del XIX secolo, Jules Renard chiedeva ai suoi lettori la stessa cosa, “Qual è un’immagine del silenzio”, e poi aggiungeva: ” è la neve che cade sull’acqua”.  Pausa.

E adesso mentre io sono in silenzio e lei è in silenzio, io in Svizzera e lei in Kerala… noi siamo della neve che cade sull’acqua. Ecco, in questo, noi stiamo facendo del cinema. Questa cosa continua, ma siamo rimasti in pochi. …e se dei miei lavori vengono mostrati al film Festival del Kerala, in un certo senso significa che delle parti di me continuano in un altro paese, è tutto.

C. S. Venkiteswaran:  e lei come lo trova il silenzio?

J.L. Godard: …restando sempre di più da solo, e con questo non intendo necessariamente di stare completamente da solo, completamente separato dall’urlo e dal furore (evidente il gioco di parole con The Sound And The Fury, il romanzo di W. Faulkner), ma, nello stesso tempo, abbastanza separato da poter avere uno sguardo “on sound and fury”.

C. S. Venkiteswaran:  Noi viviamo in un mondo in cui siamo continuamente bombardati dalle immagini, un mondo in cui i singoli Stati e le compagnie sono diventati i più grandi produttori di immagini di sorveglianza. La rete stessa, la presenza dei social media, incarna questa onnipresenza delle telecamere in tutto il mondo, in ogni secondo. Esiste questa vera e propria inondazione di immagini che vengono caricate sulle piattaforme, che diventano degli archivi in progress.

Come si pone un cineasta davanti a questo flusso continuo di immagini?

J.L. Godard: Bè allora è necessario fare un po’ di archeologia… Per quanto mi riguarda sono solo, i miei genitori non ci sono più, manteniamo qualche rapporto con i nipoti di mia moglie. D’altronde anche mia moglie ha pochi familiari, malauguratamente, ma cerchiamo comunque di mantenere un barlume di quella che è una vita di famiglia, per cui cercando di fare un po’ di archeologia, per quel che mi riguarda arrivo solo fino alla mia nonna, o tutt’al più alla mia bisnonna, di cui ho ancora qualche immagine, ma dopo….è finito. Per questo faccio spesso uso di documenti d’epoca, anche di cinema, che entrano nei miei film, perché è un modo di prolungare nel passato la mia famiglia. Penso che molte persone come me non riescono a risalire oltre i loro bisnonni. In fondo, i ricercatori ricercano quello che non troveranno mai. …allora, è questo il punto in cui i poeti entrano in scena…Alcuni misurano il tempo in secoli, io lo misuro a “nonni”, ma ci si rende conto che non si può andare all’indietro più di dieci volte… perché a quel punto si è già agli albori della cristianità, dell’Islam….Pausa di silenzio.

Jean Luc Godard: Silenzio….Silenzio è una parola che si sente dire spesso quando si gira un film, un momento prima di dire “si gira”.  Prima si dice “Silence” e poi “moteur”. La difficoltà del cinema di oggi consiste nel fatto che si riesce a pensare solo a “moteur” (si gira), e non si pensa più a “silence”, al silenzio, eppure si dicono ancora tutte e due le cose, quando si gira un film.

C. S. Venkiteswaran:  Una volta lei ha osservato che è facile fare dei film politici mentre è molto più difficile fare i film politicamente. Ora, guardando alla situazione mondiale, lei riesce a vedere un pubblico che guarda le immagini da un punto di vista politico?E che cosa pensa, in generale, del pubblico che va al cinema? Tipi diversi di pubblico, ecc…

 J.L. Godard: A proposito del pubblico Jules Renard, uno scrittore del XIX secolo, a chi gli chiedeva di esprimersi sui critici, aveva risposto che il critico era come un soldato che a un certo punto diserta, che tradisce e passa al nemico, e a quel punto gli era stato chiesto: ” Ma chi è il nemico?” E lui aveva risposto: “il pubblico”.  Il nemico è il pubblico.

C. S. Venkiteswaran:  E per lei, Monsieur Godard, che è stato a sua volta un critico?

J.L. Godard: Sì, ma sono come Jules Renard, sono diventato come lui, poco a poco…Sì, all’inizio sono stato un critico di cinema, ho creduto alla lingua. Come si può dire lingua in inglese[2]?

Traduttrice: “language”

J.L. Godard : No, no, assolutamente, perché oggi faccio una netta distinzione tra la lingua, cioè ogni lingua particolare, come l’inglese, il francese, l’italiano, ecc., cioè a dire, l’alfabeto, se volete…Ma  la lingua non è il linguaggio, il linguaggio è un’altra cosa, è una mescolanza di immagini e di parole. Oggi non ci sono che le parole, l’alfabeto, il che significa 23, 24 lettere, tutt’al più. Per i biologi oggi ci sono 3 o 4 varianti del virus, al massimo. …Ma sono le lettere….e in francese si può fare un gioco di parole tra “lettre” (lettera) e “L’etre humaine”, e, ancora, le ” lettre” nel senso di lettere nel senso di letteratura…

Ora questi giochi di parole non li faccio più, e questo mi rende effettivamente molto solitario.

A un certo punto, durante la traduzione, linguaggio viene tradotto con la parola inglese “tongue”..

J.L. Godard: Il linguaggio va tradotto nella lingua (Godard usa qui the tongue come possibile traduzione del francese la langue, n.d.t.), che è l’obiettivo del cinema, e si fallisce perché a quel punto si hanno solo delle parole…Shakespeare, con Amleto, diceva già questo, parlava di sogni che sono un altro modo, un’altra parola per definire il linguaggio, ma oggi il vero padrone è l’alfabeto, e il vero nome di Google è alfabeto. E se questo vi fa ridere, per un verso, dall’altro verso, dovreste piangere, nello stesso tempo, perché il cinema è questo, piangere e ridere e altre cose. il cinema è nato tra il riso e il pianto, Lumière non pensava a questo, faceva il suo lavoro di industriale , ma dietro a questo, c’erano altre cose…

Oggi ci sono pochi film, ma se voi oggi vedete i primi cinque minuti di Arsenal di A. Dovženko, che sono muti, ebbene, se li guardate, capirete tutto. Oggi non si sanno più fare delle immagini per cui dai primi cinque minuti di un film si comprende tutto. Provate a farlo, con le persone che parlano alla televisione, persone come me e te, provate a parlare senza parlare, mescolando immagini e suoni. Il risultato è che non lo si può fare. E questo è un gran guaio e il virus è lì, ed è una sorta di amico/nemico, è un traditore, ma nello stesso tempo è l’informazione e ci trasmette qualche cosa, lo so perché diversi anni fa ero stato invitato da Jacques Monod, che è mio cugino, a una trasmissione televisiva. Jacques Monod, insieme ad altri due, aveva scoperto il DNA, per questo hanno preso il premio Nobel, e lui mi diceva che il DNA si comporta in questo modo, procede sempre in avanti (Godard accompagna le parole con il gesto), e io gli avevo chiesto se per caso non avrebbe potuto muoversi anche all’indietro, e lui mi aveva risposto che questo non era possibile. Qualche anno dopo, ho disegnato il movimento all’indietro ed ecco l’RNA, il retrovirus, cioè l’ho solo immaginato…Parlo dell’RNA, ora chiamato retrovirus messaggero. E noi ci siamo dimenticati che questo RNA messaggero, come il dio Ermes, ci porta qualcosa. Ma quello che porta noi cerchiamo di distruggerlo piuttosto che di amarlo. Ecco, questi sono i miei problemi con il virus.

 C. S. Venkiteswaran:  A proposito del suo ultimo film, Livre d’image, ci può raccontare come avviene il processo di creazione? In ogni suo film si osserva un impegno costante, un rapporto continuo con la storia del cinema, con le questioni politiche, tuttavia in quest’ultimo si avverte un piacere e una totale libertà dell’atto creativo…Ci può allora spiegare come nasce per lei l’idea di un film, come prende forma: parte da un soggetto particolare, da un’idea, o da un’immagine…Vorrei capire, cioè, come si contrappongono per lei spontaneità e struttura, casualità e progetto. C’è un quadro di riferimento che si ripete per ogni  nuovo film?

 J.L. Godard : A proposito  di “quadro”, farò un gioco di parole; il direttore della fotografia di Soigne ta droite, (Caroline Champetier) mi diceva che c’era una differenza, perché mentre più o meno tutti i cineasti inquadrano, mettendo le immagini in una cornice, come per realizzare un quadro, io invece inquadro…. C’è molta differenza tra “cadre” e “cadré”, tra inquadrare e inquadrato. Questo è interessante, per esempio, se si pensa agli impressionisti francesi, che sono passati dal mettere in quadro (cosa che facevano tutti i pittori di quell’epoca), al quadro, il che significa passare a qualcosa di completamente diverso, a qualcosa d’altro. Sì, inquadrare, nel senso che tutti inquadrano nel cinema, ma non tutti lo facciamo partendo dal centro, ed è in questo che si dà una grande differenza.

In effetti, in quasi tutti i film che si vedono, si vede l’atto dell’inquadrare, ma è molto raro vedere qualcosa che viene dal centro e dall’immagine. Se si filmasse la Terra come i cineasti filmano il mondo oggi, non si vedrebbe che l’insieme del mondo in generale, ma non si riuscirebbe mai a vedere la Terra.

Ho fatto un errore anni fa quando ho intitolato il mio film Adieu au langage, Addio al linguaggio, mentre avrei dovuto chiamarlo Addio alla lingua, Goodbye to tongue, ma non l’ho fatto perché la gente non l’avrebbe capito, e io ho rispetto del pubblico anche quando il pubblico sbaglia. Oggi, invece, chiamerei quel film Good morning to language, e tuttavia l’ho intitolato Goodbye to language apposta, anche se è stato un errore, che ha portato il film ad un insuccesso finanziario.

C. S. Venkiteswaran:  …ma non ci ha parlato ancora di come avviene il processo di creazione.

J.L. Godard :Ecco il mio modo di procedere (dice, mostrando un catalogo). Sono contrario alle sceneggiature, ma oggi dopo aver fatto Livre d’image, ho realizzato altre due sceneggiature. Una si chiama Scenario ( Sceneggiatura) e sarà prodotta da Arte e l’altra si chiama Funny Wars. Adesso vi voglio far vedere questa (sfoglia il catalogo in cui a immagini si alternano pagine bianche).

(A un certo punto si intravede il nome Carlotta.)La smetto qui, altrimenti andrebbe avanti per un’ora. ( A questo punto si alza in piedi, e mostra ancora le pagine del catalogo: si può leggere Le bleu du ciel.)

Ho fatto questa sceneggiatura e l’ho mandata al produttore che è un marchio famoso di moda, Saint Laurent, e non so  se quando l’ha vista ci ha capito qualcosa, perché io stesso non capisco i miei film, ne comprendo solo alcune cose, e quindi, in un certo senso, sono io il mio proprio RNA messaggero, e ora che sta finendo la mia vita di filmaker, la sto chiudendo con queste due sceneggiature per Arte, e dopo dirò: Goodbye Cinema.

C. S. Venkiteswaran:  No, è troppo presto, ( anche la traduttrice si unisce e dice: è troppo presto, Monsieur Godard).

Nei suoi film si incontra spesso un modo stupendo di filmare la natura, si vedono dei paesaggi bellissimi, c’è una sorta di tranquillità in queste immagini. In quale modo vengono scelte, e come vengono messe in rapporto con le altre, cioè con le immagini di archivio, con le citazioni, gli inserti video, qual è il ruolo della natura nei suoi film e come vengono scelte queste immagini, con quale criterio?

J.L. Godard : Bè, direi che la natura è la natura (ridendo), e che è naturale usare la natura. E poi io non sono un regista francese, soltanto, sono anche un regista svizzero, anzi, sia io che mia moglie siamo entrambi sia svizzeri che francesi e  io mi sento…non esattamente un esiliato, anche se tutte le volte che dalla Francia vado in Svizzera mi sento un po’ in esilio, e viceversa, quando dalla Svizzera vado in Francia. La Francia è un paese dove si sente maggiormente il peso della cultura, ovviamente, ma la Svizzera ha un legame più stretto con la natura e fin dalla mia nascita ho fatto sempre avanti e indietro tra i due paesi, Francia e Svizzera sono entrambe la mia patria e sia io che mia moglie abbiamo un forte sentimento rispetto ai problemi che ognuno dei due paesi porta con sè.  Le autorità svizzere, comunque, non ci considerano degli svizzeri esattamente come gli altri, e le autorità francesi ci hanno dimenticato come cittadini, e quindi noi viviamo tra le relazioni, i litigi, e le difficoltà che appartengono ai due paesi. L’uno ha bisogno dell’altro, e nello stesso tempo ci sono tante differenze tra questi due paesi….due sono troppi…un paese solo è abbastanza, questo è il mio pensiero.

C. S. Venkiteswaran:  Vorrei parlare per un momento del cinema indiano, che è il più grande produttore di cinema al mondo…

J.L. Godard : …e il più grande distributore…

C. S. Venkiteswaran:  Mi riferisco al suo Histoire(s) du Cinèma, in cui curiosamente ci sono pochi riferimenti al cinema asiatico, e in particolare al cinema indiano. Perché questo? E’ un cinema troppo oscuro, troppo lontano?

J.L. Godard :Più semplicemente la ragione è che avevo poco materiale, non ho mai ricevuto i film, ho avuto qualcosa dal Giappone, dalla Corea del Sud, ma in generale ne ho ricevuti pochi, a meno che non fossero dei film diventati famosi, e per questo maggiormente distribuiti. Non avendoli mai ricevuti non ho potuto fare l’archeologia di quei film, a parte per alcuni che erano tenuti in gran conto dalla Nouvelle Vague, come i film di Mizoguchi, e più tardi, di Ozu, ma non era comunque il mio passato. E siccome il cinema era stato inventato in Francia e in America, per fare dell’archeologia ho guardato quello che era il mio passato. America, Francia, Germania, Italia, questi erano i paesi di provenienza dei film e io ero cresciuto con quel passato.

Quando sono stato in Giappone, molti anni fa, l’unica cosa che ho fatto è stato andare sulla tomba di Mizoguchi. E’ tutto. Non so nulla di quel mondo. So un po’ di più di Medio Oriente, perché sia la Francia che l’Inghilterra erano coinvolte nel Medio Oriente. Conosco un po’ anche i film dell’Africa…Una volta ho cercato di girare un film in Mozambico; avevo dei rapporti con quel governo che mi dava una serie di informazioni sulla possibile nascita di una rete televisiva in quel paese, ma questa cosa non andò a buon fine, perché poi si accordarono con degli italiani della Rai per creare una rete televisiva in Mozambico, e a quel punto mi sono trovato fuori e sono tornato in Europa. Questa è stata una grossa perdita, e l’Europa oggi forse non è un enorme sbaglio, ma è un grande fallimento. Questo è il motivo per cui soprattutto cerco di occuparmi e di studiare i fallimenti, che poi sono anche i miei personali.

C. S. Venkiteswaran:  Anche oggi che esistono le piattaforme, non ha avuto occasione di vedere dei film indiani, di recente?

 J.L. Godard :  No, io non guardo mai le piattaforme. l’unica cosa che uso è il cellulare.

A questo punto interviene la traduttrice che rinforza il discorso che fa Godard, dicendo che quando studiava storia del cinema  in Francia, alla Sorbona, i film indiani non venivano mostrati, e se ne dava comunque poca notizia, in generale, non erano accessibili, non erano visibili.  

J.L. Godard : Ecco il modo con cui oggi faccio cinema, dice tenendo in mano il cellulare. Ho alcuni amici, una decina, forse meno, non sono sicuro, e a loro, non ogni giorno, ma ogni due, tre giorni circa, mando un’immagine che può provenire dalla natura o da un disegno o da un quadro, e la mando senza elaborarla, sempre sperando  – ma in silenzio, senza chiederglielo, o chiedendoglielo in silenzio – che loro  mi rispondano nello stesso modo, non con immagini straordinarie o intelligenti, né ringraziandomi per quelle che ho mandato loro, ma continuando a credere in immagini come questa…  mostra sul telefonino un disegno, l’immagine però sparisce subito.

Questo significa che il digitale non funziona bene. Ora cerco di farvi vedere qualcos’altro. Sto cercando un’immagine che non riesco a trovare, dice sfogliando le immagini sul telefono, verrà, verrà, è la vera immagine che vi voglio mostrare, ed è la vera immagine di un regista, mostra lo stato in cui mi trovo oggi.

E piacerà a tutti i registi, perfino a quelli che sono i miei nemici.

Mentre sta cercando l’immagine Bina Paul, da direttrice del Festival gli chiede perché non è mai stato in India, mentre è stato in Vietnam.

J.L. Godard :  In realtà non sono mai stato in Vietnam, anche se avevo mandato un progetto alla loro ambasciata a Parigi, durante la guerra del Vietnam, perché volevo girare un film là, ma loro si sono rifiutati. Non mi volevano, ero troppo azzardato per loro.

Avevo scritto la sceneggiatura, il film doveva iniziare a scuola, tra le rovine di una scuola che era stata colpita dalle bombe americane, e lì c’era un bambino che stava studiando francese, e poi si muoveva, andava in montagna, e durante gli spostamenti si doveva proteggere dalle bombe, scendeva nei rifugi, sempre continuando a leggere Berenice di Racine, e questo bambino ora leggeva, ora scriveva di volere un paese più sicuro…Ma questa sceneggiatura i vietnamiti l’hanno rifiutata.

Poi Godard fa vedere l’immagine finalmente trovata: si tratta del disegno molto stilizzato di un uomo di spalle che sta pescando, pochi tratti colorati, in verde e in blu, indicano l’acqua e il paesaggio circostante.

Ecco il mio status attuale. E’ un uomo che sta pescando…”Che cosa mi sta dicendo l’acqua?” Che cosa mi ha detto l’acqua è un altro nome per Adieu au langage, sono tutte le parole che mi ha detto il fiume.

A questo punto Godard alza i due palmi delle mani per salutare e congedarsi.

[1] n. d. t. : in Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo 2008.

[2] La conversazione si svolge per lo più in inglese, anche se in più punti J.L. Godard passa al francese, in ogni caso tutta la conversazione viene “facilitata” da una traduttrice che interviene con la traduzione in inglese o in francese, quando necessario.

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