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God of War mito sublime

God of War mito sublime

Games Di raro fulgore grafico tra le migliori opere elettroniche degli ultimi anni

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 21 aprile 2018

Il divino Kratos è migrato, profugo di una leggendaria guerra olimpica il furioso uccisore di dei ha infranto i confini del mito, giungendo dalla Grecia al gelido e barbarico nord dominato da Odino. God of War, non numerato sebbene sia il quarto episodio senza contare i tre “spin-off” di questa epica e grand-guignolesca saga Playstation, stravolge le convenzioni ludiche alle quali ci eravamo fin troppo abituati, riscrivendo nuove regole del gioco senza tuttavia rinunciare al pathos iperbolico della sua storia ma diluendolo in un lungo “adagio” wagneriano, quando prima la sua ritmica era quella frenetica e impazzita degli “scherzo” di Anton Bruckner, soprattutto quello della nona sinfonia.

La lentezza sublime di questo gioco che si evolve in un dilatato e impressionante piano-sequenza interattivo di quaranta ore è già evidente dal luttuoso inizio, quando vediamo Kratos tagliare una betulla secolare in un bosco di langhiana e nibelungica memoria per poterla poi ardere presso la pira funeraria dove giace una moglie che non conosciamo e della quale non vediamo neppure il volto morto. Percepiamo comunque l’amore di questo dio sofferente e un dolore che si va ad aggiungere a quello dei micidiali traumi del suo passato e che condiziona con la sua gravità l’umore di tutta la sorprendente nuova opera dei Santa Monica’s Studios, un tono grigio e crepuscolare che nemmeno qualche riuscito e raro intervallo comico riesce a illuminare.

Kratos non è solo nel suo pellegrinaggio verso la vetta più alta dell’iperboreo regno degli Asi per disperdervi le ceneri dell’amata secondo il suo ultimo desiderio, con lui c’è un bambino esile che contrasta con la mole dell’ex fantasma di Sparta, suo figlio Atreus. Così God of War non è solo un esemplare videogame d’avventura in terza persona che si impadronisce e varia le intuizioni di altri capolavori come The Last of Us, Legend of Zelda e Dark Souls (persino Lollipop Chainsaw), ma una cruda riflessione sulla paternità e le responsabilità educative, affettive ed etiche che da questa conseguono. Il rapporto tra padre e figlio, che non solo si realizza attraverso le preziose intuizioni diegetiche della sceneggiatura ma nelle dinamiche di gioco, è il fulcro emozionale di tutta quest’opera per Playstation 4, il suo cuore pulsante e ferito da un dolore che strazia, una sofferenza che scaturisce da una paura che qui, al contrario di Star Wars, non conduce al lato oscuro perché Kratos ci è già stato e sta tentando con abnegazione e eroismo di uscire dalle antiche tenebre della sua smisurata, mostruosa violenza.

Se nei trascorsi episodi gestivamo le pirotecniche danze splatter, omicide e deicide di Kratos nell’immobilità di piani fissi o lentamente dinamici questa volta la macchina da presa virtuale è posizionata alle spalle del protagonista, cambiando radicalmente il “gameplay” della lotta che da coreografica diviene pesante, pietrosa, piantata a terra come un monolite. Con la sua ascia magica chiamata Leviatano il paterno anti-eroe si esercita in combattimenti più lenti, lucidi e ancora spettacolari, non c’è più solo l’esercizio dello stile ma la riflessione e un pensiero strategico che trasformano ogni scontro in momenti ludici di rara e selvaggia potenza, più Conan il Barbaro e meno Dante di Devil May Cry.

Gli artisti di Santa Monica’s Studios sono riusciti ad elevare ulteriormente la qualità visiva e visionaria resa possibile dal motore grafico della Playstation 4, tanto che ogni colossale panorama (le selve, i laghi, le nere cave, gli immani ruderi o le algide vette) appare fulgente sebbene agonizzante, perché quasi tutto in queste comunque meravigliose e spaventose terre norrene sembra sia sul punto di trapassare, non-morto in un perenne “Gotterdammerung” che non conosce né la quiete della notte né il lucore di una nuova aurora. Non c’è nessuno gioco contemporaneo ne’ di Sony ne’ della concorrenza che possieda questo fulgore grafico, perché non si tratta solo di iper-realismo ma di qualità o arte della pittura. Nel flusso fluviale di un progresso che non viene quasi mai, salvo rarissime eccezioni, segmentato dal montaggio è consigliabile fermarsi spesso ad ammirare lo scenario, ruotando la macchina da presa virtuale attorno al protagonista per rivelare importanti dettagli poco evidenti o produrre piani fissi la cui intensità ricorda le immagini silvane o montane di John Milius e Michael Cimino. L’osservazione e l’esplorazione delle ambientazioni è fondamentale non solo per il piacere estetico ma per risolvere i numerosi enigmi ambientali dalla variabile difficoltà.

Anche le musiche di Bear McCreary che ricordano più il Prokoviev di Alexander Nevski del Wagner nibelungico e la scrittura fittissima sono dello stesso alto livello della messa in scena e del gioco puro, arricchito ulteriormente e prolungato da una notevole libertà d’approccio grazie alle imperdibili missioni secondarie e opzionali. Durante le vertiginose ascese, le incessanti marce e mentre navighiamo le acque di un lago all’ombra gargantuesca di un drago-serpente, i dialoghi non cessano mai e questa volta è necessario sottolineare che il doppiaggio in italiano possiede un’inedita qualità. Attraverso i discorsi tra padre, figlio e una testa mozzata sapiente e logorroica il titanismo della vicenda si scioglie in momenti di struggente intimismo o di analisi del mito norreno, raccontato attraverso la cronaca di decine di vicende leggendarie tratte dai canti dell’Edda. Il lavoro svolto dagli sceneggiatori di God of War sui fondamenti della mitologia norrena è assai più rigoroso rispetto a quello del passato sul mito greco, sebbene quest’ultimo sia stato comunque reinterpretato in maniera gloriosamente pop e “metallara” tanto da essere in parte rinnovato e rivitalizzato.

Avventura che prosegue scandita da climax travolgenti e colpi di scena da lacrime e brividi fino al finale, God of War è un gioco coraggioso, che travolge una formula consolidata negli anni e amata da milioni di appassionati per edificare qualcosa di nuovo e rivoluzionario, accettando il rischio di deludere le aspettative dei fan più integralisti. Il risultato dei Santa Monica’s Studios va oltre ogni aspettativa e God of War entra così nel Walhalla delle migliori opere elettroniche del nuovo secolo, perché sebbene non ci siano altri nomi con i quali indicarle risulta ormai riduttivo chiamarle “solo” videogiochi.

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