Visioni

Gnut: «Tra cemento e zombie, le mie emozioni diventano canzoni»

Gnut: «Tra cemento e zombie, le mie emozioni diventano canzoni»Gnut – foto di Alessandra Finelli

Incontri Universi di parole e note per l'artista napoletano, una scrittura filtrata da timidezza e autoironia

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 12 gennaio 2024

In genere un giornalista dovrebbe sbilanciarsi il meno possibile con l’artista che intervista, ma io non sono un giornalista quindi rompo la convenzione e affermo con grande serenità che Gnut è a mio avviso il miglior cantautore in circolazione in Italia, unione perfetta tra Pino Daniele e il Nick Drake delle sue suonate folk. In concerto (ieri era a Roma, il 18 al Locomotive Club di Bologna, il 19 al Cap 10100 di Torino) questa atmosfera si conserva per il suo modo di cantare assai personale, dolce e malinconico, ma è spesso interrotta da irresistibili gag raccontate tra l’italiano e il napoletano. La questione è che ha raccolto nella sua carriera molto meno di quanto meriterebbe. Inizio proprio da questa constatazione domandandogli se si è posto il perché e se questa cosa se la vive male. Gnut ha fatto della timidezza una arma segreta alla Troisi, ed ogni riflessione è spesso costruita in modo autoironico: «In genere tutte le cose mi succedono con lentezza e regolamente in ritardo. Però in questa epoca in cui un singolo dura tre giorni, il mio album è uscito da un anno e mezzo ma le sale si riempiono sempre di più solo ora. Io ho le mie insicurezze musicali, ma mi piace quello che faccio e sento che ha un valore».

Canti in napoletano come un uomo di altri tempi. Dove lo hai imparato?

Quando a Milano qualcuno mi diceva che la mia fortuna era che a Napoli avrei potuto vedere sempre il mare, spiegavo che da Arzano non si vedeva neanche con il binocolo. Cemento e zombie che camminavano. Ho frequentato le elementari dove hanno scritto «Io speriamo che me la cavo» e l’adolescenza l’ho passata a Scampia, in piena epoca della faida dei Casalesi.

Stranamente, non sembra che il tuo immaginario sia stato influenzato da tutto questo.

Crescere a Scampia ti fa capire quanto sia pericolosa la droga. Da bimbo giocavamo nei parchi e dovevamo fare attenzione alle siringhe. Ma con quella gente ci crescevo, non li vedevo come tossici. Ero cresciuto con la passione per Kurt Cobain, sapevo che dietro quegli zombie c’erano esseri umani che avevano fatto scelte sbagliate. I miei erano preoccupati, dato il contesto, perché non amavo studiare, né lavorare. La musica è stata un modo di isolarmi, per sfuggire da quella realtà, per impegnare le energie mentali ed emotive diversamente.

Ma che vuol dire Gnut?

In uno dei tanti paesini dell’hinterland napoletano, c’era uno dei tanti festival per giovani aspiranti cantanti. Tutti si presentavano con le loro cover. A me non piacevano, allora scrivevo, sperando che gli altri membri della band le cantassero loro, essendo timido e non amando il mio timbro, ma alla fine mi ritrovavo a cantarle io. Vincemmo e da allora capimmo che dovevamo trovare un nome. Non veniva niente così iniziammo a cercare tra i suoni onomatopeici. Per misteriose ragioni ci piacque Gnut e rimase il nome della band.

Quanto è stata lunga la gavetta?

Tutta la vita. Vincemmo Arezzo Wave nel 2004 e ci invitarono a registrare da Mauro Pagani. Immaginati il passaggio, dallo scantinato di Secondigliano a Milano. Da allora ebbi una piccola maledizione: non trovando un distributore, ci mettevo un casino a pubblicarlo e nel frattempo ero già pronto a registrarne un altro. Per campare facevo mille lavoretti sino a che non mi stabilii a Milano per fare l’educatore. Quando iniziai a essere più stabile, mia madre iniziò un lungo calvario. Passai il tempo a fare su e giù da Napoli ed un senso di irresolutezza mi assalì. Paradossalmente il momento in cui iniziò a crescere la mia visibilità, in cui realizzai il mio sogno di adolescente, mia madre si spense e capii che del successo non mi interessava affatto.

In un brano racconti che quel che sembra una canzone di amore fu scritta in conflitto con tuo padre.

Mio fratello e mia sorella erano molto più grandi di me, io ero un po’ il figlio incasinato. Forse per questo, quando mamma stette male, feci di tutto per essere presente con lei e lui. Ma questo sembrò non bastare. Papà vedeva con sospetto il mio volere fare l’artista come mestiere. Scrissi con rabbia Dimmi cosa resta, in cui mi lamentavo del fatto che nonostante i mille sforzi, sembrava non essere mai contento di me. Capii, nei concerti, che tutti la prendevano come una canzone d’amore e un po’ scherzando spiegavo che in origine non lo era, ma che in fondo era una canzone d’amore per lui. Veniva da una famiglia complicata. Ha dovuto fare mille sacrifici. Era un duro. Una volta però, cantai in presenza sua e della famiglia la canzone dedicata alla nonna. Una storia di rivalsa, contro un uomo violento. Piansero tutti. Fu in quel piccolo concerto in paese, che realizzai quanto fosse fiero di me.

A Napoli, tornato da Milano, hai avuto due collaborazioni importanti: Daniele Sepe e Alessio Sollo, che scrive ormai gran parte dei tuoi testi.

A Napoli avevamo una serata per giovani cantautori «Il tirabusciò». Daniele Sepe ogni tanto passava a improvvisare con il sax e un po’ per gioco nacque la storia di Capitan Capitone e del veliero dei pirati, che poi era il suo gommone. Ci invitò in un concerto a sostegno degli operai licenziati e a seguito di ciò, sotto la sua guida, registrammo l’album del Capitone. Andò benissimo, era il disco con l’Ammore vero. Quella canzone resta la finestra dentro cui tutti si affacciano per iniziare a conoscere il mio mondo. Alessio Sollo si è trovato suo malgrado a essere il mio paroliere. Lui scriveva queste poesie meravigliose su facebook e io iniziai a sua insaputa a musicarle. Il patto fu che lui prestava le sue parole per le mie canzoni e io le mie canzoni per il suo libro di poesie L’Orso innamorato.

L’album «Non te ne fa» è uscito un anno fa, conoscendo i tuoi dischi, immagino tu abbia più di un nuovo progetto in preparazione…

Sarà perché invento ninna nanne per mio figlio di due anni, ho ripreso un progetto che avevo accantonato: un libro di canzoni per bambini, ispirato ai grandi maestri come Endrigo e Lauzi. Mi mette ansia sapere che crescano circondati da musica terribile. Ma c’è un lavoro che ha preso il sopravvento. Un pò di tempo fa ho rischiato di perdere mio figlio, per una malattia che per fortuna ha avuto un decorso non letale. Durante il mese passato in ospedale, in epoca Covid, non potevo entrare in stanza a visitare lui e la mamma. Stavo impazzendo da solo a casa ed ho iniziato a cantare e suonare musica sotto forma di mantra. Nulla di religioso, perché l’ultima preghiera che provai a fare, per mamma, fu vana. Ma questo mio cantare in napoletano per ore e ore sullo stesso groove mi ha fatto passare la nottata. Ed ho capito che stavo iniziando, senza saperlo, il mio nuovo album, tra i canti napoletani del ‘700 delle Villanelle, i gospel afroamericani e lo gnawa maghrebino.

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