I Golden State Warriors sono i nuovi campioni NBA. Sei partite molto combattute contro i Boston Celtics per conquistare il loro settimo anello. Arrivano al titolo al culmine di una stagione equilibrata che ha offerto numerosi capovolgimenti di fronte. A ottobre in molti pensavano che sarebbe stato un affare privato tra Los Angeles Lakers e Brooklyn Nets. Non è stato così. Settimana dopo settimana a cadere sono stati i Phoenix Suns, finalisti lo scorso anno e dominatori della stagione regolare, i Milwaukee Bucks, i campioni in carica, i Miami Heats primi a Est, i Philadelphia 76ers, i Memphis Grizzlies e i Dallas Mavericks.
Alle Finals sono arrivate due squadre con un sistema di gioco offensivo e difensivo ottimamente organizzato. Due collettivi, Golden State e Boston, con le star e i gregari reciprocamente disposti a sacrificarsi per muovere la palla e arrivare a canestro o per proteggerlo erigendo delle vere e proprie dighe. Due team sui quali a gennaio in pochi avrebbero scommesso.

L’ORMAI leggendaria squadra di San Francisco, capace di rivoluzionare il gioco senza che qualcuno sia riuscito ancora a imitarla, aveva alle spalle due anni nelle retrovie e ha fatto qualcosa che nel mondo NBA è quasi impossibile che accada. Ha mantenuto il gruppo storico allenato da Steve Kerr, quello delle cinque finali e dei tre titoli tra il 2015 e il 2019, composto da Stephen Curry, Klay Thompson, Draymond Green e Andre Iguodala. E, contemporaneamente, ha fatto maturare i nuovi compagni nei due anni nei quali i gravi infortuni di Thompson e la partenza di Durant avevano reso proibitivo ogni sogno di gloria. Sembrava difficile tornare al livello degli epici scontri con i Cleveland Cavaliers di LeBron James e invece quel sistema si è rivitalizzato e ha generato giocatori che si davano persi, come Andrew Wiggins, la promessa mancata dei Minnesota Timberwolves, o come Gary Payton II, l’ultimo tassello preso per sostare in fondo alla panchina. Figlio d’arte, rifiutato da tanti, disposto ad accettare un lavoro come addetto ai video, ha trovato inaspettatamente a 29 anni il modo di essere una pedina insostituibile.
L’importanza dei Wiggins, Payton, Jordan Poole, Otto Porter e Kevon Looney rende, se possibile, ancora più grandi Curry, Green e Thompson. Tre giocatori che avrebbero potuto chiudere il giorno della finale persa con i Toronto Raptors, lo stesso nel quale Thompson si distruggeva un ginocchio e Kevin Durant salutava la compagnia. Ora il futuro è pieno di incognite, perché riconfermare tutti quei giocatori avrà un costo esorbitante. E di speranze, con un nuovo nucleo di giovani pronti a replicare i successi ottenuti in questi anni.

SE ERA difficile pronosticare il meritato titolo di Golden State, quasi impossibile era prevedere l’accesso alle Finals dei Celtics che a gennaio stavano per essere smembrati. La dirigenza aveva preso atto che Jayson Tatum, Jaylen Brown e Marcus Smart non avessero le qualità per compiere l’ultimo salto insieme. E quando ormai era tutto pronto per la ricostruzione, a Boston è scattato qualcosa che ha reso questa stagione memorabile. Ai Celtics sono mancate le seconde linee e forse quell’istinto per il gioco che appartiene ai Warriors. Quando le energie mancano è più difficile attenersi al piano, pensare alle cose da fare. In questo gli Warriors sono sembrati imbattibili, capaci di applicare il loro sistema con naturalezza.
A Boston sarà un’estate difficile, perché si tratterà di capire se rifondare o migliorare. Intantoo Curry e compagni continueranno ad aggiornare i libri di storia.