Mentre in Iraq si apre uno spiraglio politico, la prossima formazione di un governo di unità, continua la battaglia sul campo. Dopo l’obbligata ritirata delle forze curde la scorsa settimana e la presa da parte dell’Isil della più grande diga irachena a Mosul e delle comunità cristiane e yazidi – un’occupazione violenta che ha provocato la fuga disperata di centinaia di migliaia di civili – è l’Isil a subire ora l’avanzata dei peshmerga, forti del sostegno aereo statunitense. Le bombe lanciate dagli F35 Usa contro le postazioni jihadiste al confine con il Kurdistan hanno permesso di fermare gli attacchi lanciati contro due villaggi nel distretto di Tuz Khumatu. Non si attenua però la crisi umanitaria: secondo l’Onu sarebbero 30mila i civili intrappolati nel monte Sinjar, circondato dai jihadisti, senza cibo né acqua; 15mila quelli fuggiti in Siria e oltre 100mila quelli che hanno ritrovato rifugio in diverse comunità curde.

Ma a tenere banco ieri era la notizia della nomina a sorpresa del nuovo primo ministro da parte del presidente della Repubblica Massoum. Il designato è Haider Al-Abadi, sciita membro del partito Stato di Diritto, la creatura dell’ex premier Maliki: cresciuto politicamente in Occidente, Al-Abadi è rientrato in Iraq solo nel 2003, dopo la caduta di Saddam Hussein. Ieri Al-Abadi ha promesso l’immediata creazione di un governo di unità nazionale che includa le fazioni sunnite e curde e ha chiesto ai leader politici di mettere da parte i settarismi interni che hanno garantito all’Isil il migliore dei terreni di coltura. Secondo fonti a lui vicine, il primo ministro ha già avviato consultazioni con le principali fazioni irachene.

Ieri è giunto anche l’atteso plauso dell’amministrazione Obama che ha promesso un’intensificazione dell’intervento militare contro l’Isil dopo la nomina del nuovo premier. Washington, il burattino che scelse Maliki come suo uomo a Baghdad otto anni fa, ha impiegato poco ad abbandonare il vecchio alleato, come accadde anche con il rais egiziano Mubarak e il tunisino Ben Ali. Ora la Casa Bianca punta sul governo di unità nazionale di Al-Abadi. Il segretario di Stato Kerry è chiaro: nessun marine metterà di nuovo piede in Iraq, ma gli Usa sono pronti a «considerare altre opzioni politiche, economiche e di sicurezza».

Insieme a quello occidentale, è giunto anche il commento favorevole dell’Iran alla nomina di Al-Abadi e l’allontanamento di Maliki, da tempo target delle critiche della Repubblica Islamica: come avvenuto due mesi fa, quando le prime province irachene caddero in mano jihadista, Washington e Teheran hanno mostrato una nuova convergenza di vedute.

Il timore, però, che serpeggia tra gli scranni parlamentari e per le strade di Baghdad è un eventuale colpo di mano da parte del “deposto” Maliki: domenica l’ex primo ministro aveva apertamente accusato il presidente Massoum di violazione della Costituzione perché si era rifiutato di affidargli il terzo mandato consecutivo come capo del governo. Un’accusa gravissima anticipata dal dispiegamento di soldati e unità speciali fedeli a Maliki intorno alla zona verde della capitale – sede del parlamento, le ambasciate, gli uffici governativi e l’abitazione del premier – e lungo le principali vie di comunicazione.

Ieri però Maliki ha chiesto all’esercito di restare fuori dalle questioni politiche e per ora la situazione resta calma: dopo le manifestazioni di gioia per la cacciata dell’ex premier da parte di gran parte della popolazione – consapevole delle responsabilità in capo all’ex premier nella divisione del paese – la sensazione è che anche i generali e le milizie sciite fedeli a Maliki intendano restare in attesa delle prossime mosse politiche.

«Maliki ha sfruttato il sentimento di vittimizzazione sciita per crearsi una rete clientelare radicata – spiega al manifesto l’analista iracheno Harith Hasan – Il regime di Saddam Hussein si era fondato sulla comunità sunnita per costruire la propria struttura di potere, dalle istituzioni all’esercito. Maliki ha fatto lo stesso, puntando sulla comunità sciita per radicare la propria egemonia: il premier è partito dal totale rimaneggiamento dell’esercito e delle forze militari. Al posto dei generali e degli ufficiali sunniti, fedeli a Saddam e che rappresentavano il 95% dell’apparato militare, Maliki ha posto i suoi uomini, tutti sciiti. Questo ha reso più profonda la convinzione della comunità sunnita che la realtà nata dopo il 2003 fosse una vendetta nei loro confronti».

«Da questo sentimento sono partite le prime sommosse sunnite, mentre a livello politico mancava una formula di integrazione della comunità. Questo problema avrebbe potuto essere risolto nel 2008 quando i sunniti accettarono il processo politico partecipando alle elezioni. Ma Maliki li ha ignorati e ha consolidato il proprio potere facendo leva su persone a lui fedeli, a partire dall’esercito. Per questo la comunità sunnita oggi è sospettosa verso le forze di sicurezza e l’esercito nelle zone occupate dall’Isil è subito fuggito: era consapevole che non avrebbe ricevuto alcun aiuto dai sunniti».

Ora resta da vedere se quello stesso esercito, la milizia personale di Maliki, deciderà di difendere il vecchio leader o si adeguerà al nuovo processo politico. Ieri fonti militari hanno detto alla stampa che molti generali hanno già dichiarato fedeltà al nuovo premier. Maliki sarebbe già un ricordo.