Gli Ultrasuonati
RISTAMPE Candid Records, capitolo secondo Candid Records, capitolo secondo, 1961. L’etichetta nata per documentare lo stato dell’arte e dell’impegno nelle note afroamericane ha lasciato orme profonde nella storia, e continua […]
RISTAMPE Candid Records, capitolo secondo Candid Records, capitolo secondo, 1961. L’etichetta nata per documentare lo stato dell’arte e dell’impegno nelle note afroamericane ha lasciato orme profonde nella storia, e continua […]
RISTAMPE
Candid Records,
capitolo secondo
Candid Records, capitolo secondo, 1961. L’etichetta nata per documentare lo stato dell’arte e dell’impegno nelle note afroamericane ha lasciato orme profonde nella storia, e continua anche oggi. Intanto diamo conto della seconda infornata di ristampe di grandi dischi, debitamente remixati, in cd e in vinile. A partire da Color Changes, del trombettista e flicornista Clark Terry, con il «featuring» di Yusef Lateef, e un ottetto straordinariamente compatto e duttile nei timbri, dove spicca anche il trombone di Jimmy Knepper, sodale paziente per una vita del burrascoso Mingus. Non meno svettante Out Front, uno dei pochi lavori che la sorte concesse all’esplosivo trombettista Booker Little, ascoltato sul cardinale lavoro We Insist! di Max Roach, e scomparso a ventitré anni proprio quando usciva questo disco. Roach alla batteria, un fiammeggiante Eric Dolphy, hard bop quintessenziale. Il futuro del jazz stava arrivando con The World of Cecil Taylor, il pianista allora poco più che trentenne, con un giovanissimo Archie Shepp convocato in studio. (Ri)ascoltare per credere. (Guido Festinese)
INDIE POP
Melodia, il comune
denominatore
Chiamiamolo pure indie, se la cosa ha ancora un senso. Oppure più semplicemente chiamiamolo pop, dalle varie sfaccettature, con un denominatore comune: la cura per la melodia. Cura che Karen O sembra aver riposto alla grande nel nuovo lavoro degli Yeah Yeah Yeahs, Cool it Down (Secretly Canadian/Goodfellas), a ben nove anni dal precedente. La base è un electro molto Eighties, da dancefloor, ma in cui il meglio esce fuori con ballate quali l’iniziale Spitting Off the Edge of the World (con il featuring di Perfume Genius) e la successiva, piccola gemma, Lovebomb. Arrivano da Londra e sono al loro secondo album – Anywhere but Here (Domino/Self) – i Sorry. Il giovane quintetto regala un indie pop guitar oriented da ascoltare con attenzione, perché la carne al fuoco è succosa e saporita ma da trattare con la giusta predisposizione. Si resta in Inghilterra con The Orielles che pubblicano Tableau (Heavenly/ Pias/Self). Roba di un certo peso specifico, che va dall’indie rock al pop elettronico alla dance, dal funk al r’n’b, fino a sortite che sanno di alt jazz e psichedelia. (Roberto Peciola)
BLUES
Dal tramonto
all’alba
Ritmo, non necessariamente con il gain alto dell’amplificatore. Hanno stile i ragazzi del The Ron Kraemer Trio, come dimostrano in Sarasota Swing (PPP Poquois). Ron Kramer alla chitarra, Gregg Germony al contrabbasso e Michael Finley alla batteria, coadiuvati dai Nashville Cats, propongono un lavoro strumentale con atmosfere jazzy molto accattivanti. Da locale notturno fino all’alba, tra atmosfere fumose e letterarie, in particolare con Siesta Afternoon, At the Blasé Café e Who’s Knockin’?. Dalla penisola arrivano Max Forestieri & The Moonshine Liquors che pubblicano Bloossession Vol. 7 (Bloos Records). Delta Sound vecchio stile con uno sguardo al mondo delle string band, che si ascolta facilmente. Rurali con passione, come si evince da Life Is Strange, Kalapama e Pharoahs. Concludiamo con il ritorno di Ivor S.K., che sale di livello con Mississippi Bound (Autoprodotto), sessione in solitaria di quindici brani dove l’australiano di stanza a New Orleans propone un downhome che riflette anche il clima radioso della Crescent City, come dimostra in Get Up. (Gianluca Diana)
JAZZ
Un secolo
di sax tenore
Il sax tenore, nel jazz, comincia proprio da Coleman Hawkins (1904-1969) quasi cent’anni fa: ma il grandissimo solista vive una seconda giovinezza artistica durante i Sixties quando con il dixielander Pee Wee Russell firma il robusto Jazz Reunion (Candid) in sestetto con i «moderni», sciorinando un mainstream spinto talvolta verso gli estremi del bebop. Il naturale erede hawkinsiano è il «colosso» Sonny Rollins (1930) di cui In Holland (Resonance) riporta alla luce inediti live e in studio del 1967 in trio con i locali Ruud Jacobs e Han Bennink: un periodo ritenuto oscuro perché in America il tenorista è senza lavoro, mentre invece nel breve soggiorno europeo mostra una coscienza e una vitalità senza paragoni, lavorando qui, nello specifico, tra free e hard bop. Anch’egli sulle soglie dell’avanguardia, il coetaneo Booker Erwin (1930-1970) di That’s It! (Candid) dove in quartetto bop sa esprimersi a meraviglia alternando improvvisazioni lente e veloci, robuste e ovattate, a dimostrazione di una brillantezza solista messa poi a frutto in tantissimi dischi di Mingus. (Guido Michelone)
LEGENDA
* nauseante
** insipido
*** saporito
**** intenso
***** unico
JAZZ ITALIA
La moneta
della poesia
BEPPE ALIPRANDI JAZZ ACADEMY
ALTI E BASSI (Splasc(h) Records)
**** Gran bel titolo, quello di Aliprandi per il suo nuovo disco: può alludere al contempo al nostro continuo sbandare tra botte d’umore diverso, prassi comune a chiunque, e aver diretto riferimento su come è nata questa musica: sax contralto e flauto del nostro, un lirismo tutto sostanza e dai timbri spesso ornettiani, a confronto, in tempi successivi, con il contrabbasso di Matteo Mosolo e Valerio Della Fonte, e poi reunion con i due grandi legni. Il dialogo vero in musica paga sempre: con la moneta sonante della poesia. (guido festinese)
WORLD MUSIC
Luci e ombre,
secondo il crooner
CABRUJA
CABRUJA (Over Studio Recording & Records)
**** Cabruja, cantautore venezuelano, genovese d’adozione, ci regala un disco da urlo. Luci ed ombre, malinconia e la lucentezza della vita, la passione delle nostre esistenze e a tratti la voglia di arrendersi. Lo fa con questo approccio vocale da crooner che però, per le sue origini, si discosta dal croonerismo occidentale. Rifà brani (le cover) quasi sempre cantati da donne con personalità e delicatezza. Classici della musica sudamericana, nonché pezzi di Lamb, Björk, Tori Amos, Billie Holiday. Il tutto con arrangiamenti per archi tra il drammatico e il cinematico. (viola de soto)
METAL
Senza
discussioni
DEAD CROSS
II (Ipecac Recordings)
***** Una sassata vera e propria. Speed metal e dintorni suonato alla grande. Inutile discutere delle competenze dei vari Dave Lombardo, Michael Crain, Justin Pearson e Mike Patton. Fanno ballare il cuore le storie di salute legate al chitarrista Crain, a cui nel momento delle registrazioni venne diagnosticato un cancro e prescritta una relativa chemioterapia, oltre ai problemi psichiatrici di Patton. Bene, questo granitico gruppo di amici, ha riversato tutto in questa sessione di registrazione. Micidiali, non sbagliano una battuta e non risultano mai stereotipati. Lunga vita. (gianluca diana)
ART ROCK
Quei funghi
misteriosi
KING GIZZARD AND THE LIZARD WIZARD
ICE, DEATH, PLANETS, LUNGS, MUSHROOMS AND LAVA (GZLW)
***** Stu MacKenzie e i suoi sodali sanno come sorprendere. Ice, Death… è il loro ventunesimo album e il primo dei tre previsti per il mese di ottobre (!!!). Dove trovino il tempo e soprattutto l’ispirazione è un vero mistero, ma magari quei «funghetti» citati nel titolo c’entrano qualcosa. Fatto sta che i King Gizzard raramente scendono sotto la sufficienza, ma qui la superano alla grande. Sette brani che miscelano psych pop, Caraibi, funk e jazz come avrebbero potuto fare, e non ce ne vogliano per l’accostamento, Frank Zappa o Miles Davis. Il mistero si infittisce… (roberto peciola)
INDIE ROCK
Le meraviglie
del post punk
SUEDE
AUTOFICTION (Bmg)
**** Giù il cappello davanti a Brett Anderson e soci. Sì, chapeau, perché a distanza di trent’anni riescono a tirar fuori un disco che «spacca» dalla prima all’ultima nota. Certo, si dirà, di novità ce n’è poca, anzi se vogliamo quasi nulla, perché Autofiction è un album che riprende sonorità e stili a loro cari fin dalla prima ora, sonorità che guardano a quella meravigliosa stagione del post punk inglese, con richiami che vanno da Siouxsie agli Smiths, dai Cult ai Simple Minds e via citando, ma con la peculiarità di un Anderson in grande spolvero. Gran disco! (roberto peciola)
STEVE BATES
ALL THE THINGS THAT HAPPENED (Constellation)
**** Uno degli sviluppi della musica ambient sembra essere una sua mutazione verso orizzonti sonori prossimi al post rock. Non solo inanellando sapienti narrazioni dove fragore e rumore divengono parte integrante del tutto, ma anche aggiungendo il lirismo crepuscolare proprio di quel genere. E non è un caso se Bates nella propria carriera abbia incontrato a più riprese e in varie forme i Godspeed You! Black Emperor. Se a questo aggiungiamo i freddi inverni con il vento che sibila nel Saskatchewan e le esperienze anarco punk giovanili, si spiega l’essenza di un disco che spiazza ed entusiasma. (gianluca diana)
BATIDA
NEON COLONIALISMO (Crammed Discs/Ma.So.)
**** Pedro Coqueñao alias Batida, angolano cresciuto a Lisbona, è un artista poliedrico nel suo continuo interscambio con danza, arti visive, i media più diversi. Rimbalzando tra Angola, Brasile, Capo Verde, Berlino, Londra con i suoi attrezzi per le note, ottenuti gli interventi di mille amici sulla stessa lunghezza d’onda, ecco un flusso in dieci tappe che de-costruisce il colonialismo ricostruendo l’humus dei colonizzati. Un fiume che nasconde affluenti di bellezza. (guido festinese)
CHICK COREA
PIANO WORKS (Urania Records)
**** Chic Corea resta l’unico jazzista moderno – grazie alla composizione dotta 20 Children’s Songs – entrato nei repertori dei pianisti classici, come Roberto Franca, che ne offre qui un’interpretazione magistrale, scoprendo altresì Piano Fantasy e 5 Piano Music, partiture inedite oggi proposte in anteprima mondiale. Un album per quelli che concordano sul fatto che «This Is Music…» come diceva Corea, senza distinzioni di generi o etichette. (guido michelone)
RED HOT CHILI PEPPERS
RETURN OF THE DREAM CANTEEN (Warner Bros.)
** Sei mesi dopo Unlimited Love, i RHCP danno alle stampe il seguito, diciassette tracce appartenenti alle stesse session di registrazione e dall’identico fil rouge. Dietro il banco di regia ancora Rick Rubin e l’ingegnere del suono Ryan Hewitt che garantiscono un buon mood e funzionali sonorità mainstream, ma l’impressione è che si tratti pur sempre di seconde scelte. Detto che il ritorno di John Frusciante ha rinvigorito la parte ritmica, poco altro resta da aggiungere. (stefano crippa)
SLIPKNOT
THE END, SO FAR (Roadrunner)
*** Parte Adderall, apertura del settimo lavoro della band Usa, e pensi di aver sbagliato disco: così pop, così prog… però che bel brano! Ma è solo un’impressione perché subito dopo si parte per la tangente con il metal duro e sparato a loro così congeniale, mitigato sempre da begli incisi melodici. Non c’è più la spinta propulsiva e la vena di Iowa ma in campo metal restano una delle migliori espressioni. (roberto peciola)
STEFANIA TALLINI/GABRIEL GROSSI
BRASITA (Alfa Music)
**** La pianista romana e l’armonicista brasiliano, con Jacques Morelenbaum (violoncello) in quattro brani su dieci, si incontrano per un disco in cui il jazz si mescola a reminiscenze classiche a sapori latinoamericani, zigzagando tra riletture e original, evidenziando un risultato finale che profuma di saudade, eleganza, romanticismo, virtuosismi. (guido michelone)
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento