Finisce l’estate, è tempo di rentrée, e nelle caselle email di chi si occupa di libri piovono le schede delle case editrici sulle novità dell’autunno. E come ogni anno, la domanda è la stessa: riusciremo a fare fronte a questa massa di capolavori?
Ormai nessuno scrive più che un testo è solo interessante o bello: a farlo, c’è il rischio che i lettori – anche quelli che pure il settore lo conoscono da dentro – si convincano di avere a che fare con una cosetta da poco, un insieme di pagine raccogliticce che l’editore ha deciso di pubblicare per pietà. E dunque, via con le iperboli: «un esordio di incredibile potenza», «un titolo attesissimo», «un romanzo strabiliante», «un libro rivoluzionario», «uno stile pirotecnico».
Pare di vederli, i poveri redattori che compongono queste schede e che consultano freneticamente il dizionario dei sinonimi alla ricerca dell’aggettivo più roboante.

Ma non succede solo in Italia, e lo dimostrano tre articoli usciti di recente e dedicati alle glorie e alle miserie dei blurbs, appunto gli strilli promozionali dei libri. Il primo lo ha pubblicato l’edizione britannica di Good Housekeeping, una rivista che in tempi meno fluidi si sarebbe definita «per signore», ed è lo stralcio di un libro, Blurb Your Enthusiasm, la cui autrice, la copywriter editoriale Louise Willder, ha sfornato strilli per venticinque anni. E che, lode alla sincerità, si chiede come mai «nell’editoria, un’industria che ruota intorno al linguaggio, le parole usate per descrivere i libri siano così spesso le stesse: aggettivi come luminoso, abbagliante, incandescente» e via scintillando.
In realtà, lo scrive su The Critic un innominato «ex docente di inglese e scrittura creativa presso un’importante università britannica», esiste un frasario ben preciso e chi lo conosce è in grado di decifrare quello che si nasconde dietro elogi all’apparenza privi di sottintesi.

L’idea non è nuova, lo ammette l’autore misterioso, citando un libro che risale a più di cinquant’anni fa, The Publishing Game di Anthony Blond, all’interno del quale si trova un dizionarietto pratico per la lettura corretta di un blurb, dove per esempio «kafkiano» sta per «oscuro».
Ma i tempi sono cambiati, avverte l’autore dell’articolo, e nuovi stereotipi avanzano, come «trasgressivo», usato «per descrivere qualsiasi minima variante allo status quo sessuale o ideologico» o «immersivo», che è un altro modo per dire «abbastanza coinvolgente» – mentre la parola «potente» tradisce «invariabilmente la debolezza del libro».
Pure Helen Lewis su The Atlantic analizza la fenomenologia dei blurbs, in particolare quelli che hanno il pregio di portare il peso di una firma autorevole – pratica antica, scrive Lewis, ricordando che «durante il Rinascimento, l’Utopia di Thomas More ricevette un proto-strillo da Erasmo da Rotterdan (‘arguzia divina’), mentre il First Folio di Shakespeare ne ebbe uno da Ben Jonson (‘La meraviglia del nostro palcoscenico!’)». Altri tempi: pure Lewis, infatti, deplora la scarsa immaginazione contemporanea: «elettrizzante, essenziale, profondo, capolavoro, vitale, importante, coraggioso, lucido e coinvolgente», eccetera eccetera.

Ma c’è di peggio: succede che da una stroncatura si estrapolino due o tre parole elogiative e siano quelle a finire sulla copertina dell’edizione economica. È accaduto nel Regno Unito, dove la critica Johanna Thomas-Corr ha scoperto con disappunto che un libro da lei definito «un minestrone indigesto» fosse diventato «illuminante e a tratti toccante», parole usate in realtà solo a proposito di un capitolo. Sono seguite proteste, scuse, e qualche copia venduta in più. Intanto noi ci prepariamo a leggere le centinaia di capolavori in arrivo.