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Gli strappi di un outsider: Mario e la crisi della Repubblica

Gli strappi di un outsider: Mario e la crisi della RepubblicaJean Germain Drouais, Mario a Minturno, 1786, Parigi, Musée du Louvre

Roma antica Generale del popolo, cinque volte console, iniziatore di una fase nuova della politica romana: ma il «problema» restano le fonti letterarie... Gaio Mario di Federico Santangelo, da Jouvence

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 25 luglio 2021

Dal 1938, un monumento onora in Arpino (FR) Gaio Mario, concittadino «sette volte console»: il viaggiatore è preparato grazie a una pomposa epigrafe apposta a una porta urbica. La statua, non certo memorabile, risulta però meno retorica di quella dedicata all’arpinate più famoso, Cicerone. Una sobrietà adatta al personaggio di Mario: uno che, per conquistare il consenso delle truppe, asseriva di essere un soldato, un uomo fatto da sé, uno che aveva provato di persona ciò che i suoi rivali aristocratici avevano al più studiato su libri (e libri in greco!), senza con ciò superare le loro deficienze di azione, di morale e di personalità. Un generale che narrava di esser vissuto fin dall’infanzia «tra fatiche e pericoli di ogni genere», diceva di non sapere la retorica, quindi di non saper fingere discorsi non sinceri: abile stratagemma, caro in ogni tempo ai demagoghi dell’antipolitica.
Non tutto era vero: il «generale del popolo» era meno novus di quanto volesse far credere, e forse meno rivoluzionario di quanto la tradizione ha pensato che fosse. Ma bisogna pur dire che fu una figura assai più complessa rispetto a quelle che il nostro secolo di «ominicchi» riesce a produrre: e per capirlo, basta leggere l’agile volume di Federico Santangelo, Gaio Mario (Jouvence, pp. 184, e 14,00). Di certo, non si tratta di un personaggio relegato sullo sfondo del racconto storico su Roma antica: è protagonista di una biografia di Plutarco (in coppia con Pirro), è coinvolto in un romanzo recente (Terre selvagge, di Sebastiano Vassalli, uscito nel 2014), e le sue vicende occupano spazio di rilievo in narrazioni storiche celebri e conosciute (per esempio in Sallustio). I moderni, per ragioni differenti, hanno discusso soprattutto le sue innovazioni militari, e segnalato il ruolo di «iniziatore» di fasi nuove nella storia romana: per aver ricoperto più volte la carica di console (cinque consecutivamente), per aver arruolato volontari di ceti proletari. Così agendo, egli sviluppò tendenze già presenti nella prassi, ma i suoi «strappi» risultarono, con il tempo, passaggi definitivi verso un mondo differente.
Eppure, la traccia lasciata da Mario non pare così forte da aver suscitato una memoria diffusa, adeguata alle grandi imprese da lui compiute. Quasi dominassero ancora i tratti paradossali che gli attribuisce, con severità, lo storico Velleio: «rozzo e trascurato d’aspetto, ma di vita integerrima, il migliore nel combattere la guerra, il peggiore nel gestire la pace; senza limiti di ambizione, insaziabile, incapace di controllo, sempre irrequieto» (2.11). Scrivere su Mario significa affrontare queste contraddizioni, e insieme gestire problemi tipici della storia antica: primo tra tutti, l’uso di fonti letterarie, problematiche nella loro affidabilità eppure decisive, in mancanza d’altro. Il mitizzante interesse verso le grandi personalità costituisce, in questo tempo più che mai, un ulteriore rischio di deformazione prospettica: alle prese con una figura debordante, e in fondo divisiva, a questo taglio l’autore s’impegna con successo a concedere il minimo.
La tradizione, anche scolastica, ha privilegiato di Mario alcune imprese belliche: dal conflitto africano contro Giugurta, alle risolutive e celebrate vittorie contro i Germani (donde il cenno di Petrarca al «popol senza legge / al qual, come si legge / Mario aperse sì ’l fianco, / che memoria de l’opra anco non langue»). Oggi, forse, importano più gli elementi che ne fecero un vittorioso outsider della politica, insofferente ai vari canoni della tradizione. E poi colpisce la sua tormentata vicenda, a cominciare dalla non resistibile ascesa, accompagnata però da vari rovesci e circostanze sfavorevoli: non fosse ormai abusato, lo si direbbe un caso di «resilienza». Colpisce il modo in cui Mario seppe disarticolare, attraverso ripetute «rotture», prassi consolidate della politica romana. In questo, egli fu segno o strumento (e non causa) della crisi che portò alla fine della repubblica imperiale, attraverso il logoramento dell’oligarchia senatoria, tra inefficienza, corruzione e violenza pubblica.
Intorno a lui si dipanarono vicende complicate, e lotte politiche assai feroci, che il libro segue con sintetica efficacia: le tensioni intorno al tribuno Saturnino possono esser meno celebri, ma certo ben nota è la dura contesa che a Mario oppose l’aristocratico Silla. Il loro scontro innalzò il tasso di violenza politica, finché si giunse, nell’88 a.C., alla prima di varie «marce su Roma»: episodio che la successiva storia d’Italia impone di richiamare con evidenza, ma che s’inquadra in un contesto di generale illegalità. Oltre a segnare la degenerazione istituzionale, e il passaggio quasi definitivo della lotta condotta con le armi, l’episodio si lega anche (o soprattutto) al conflitto tra Roma e i suoi alleati italici. Tale scontro, la «guerra sociale», costituì di fatto una unità e quindi identità romana estesa alla penisola (solo più tardi allargata alla valle del Po), ed è quindi tra i passaggi strutturanti della storia italiana. Per questi motivi, la lettura del libro su Mario rimerita (tanto più per la scrittura nitida adottata).
La presenza del personaggio dopo l’antichità è intensa, e sarebbe lungo farne la storia: le imprese sue di guerra furono certo meglio gestibili di quelle politiche, troppo legate a delicati snodi fra popolo, armi, poteri personali. Curiosa e allusiva la scelta di Ranuccio Bianchi Bandinelli, che chiamò «Mario» e «Silla» i due dittatori, l’italiano e l’austro-tedesco, da lui accompagnati nel 1938 in una celebre visita monumentale, ricordata poi con disagio. Mario, di cui non restano ritratti, fu raffigurato con efficacia da alcuni pittori, in grandi composizioni di battaglia. Quanto ai poeti, sempre utile guardare ai libretti d’opera. Così parlava il Cajo Mario «magnanimo sempre» di Gaetano Roccaforte, musicato da Niccolò Jommelli nel 1746 e poi variamente ripreso: «Respirar non saprò, finché non sia / di Roma assicurato ogni sentiero: / questo, questo, o Romani, è il mio pensiero». Oggi che a Roma non si eleggono più consoli ma sindaci (sindache?), con un simile programma, viste le buche tra i sampietrini, chissà quanti voti…

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