Due anni dopo essere uscita dall’ultima ieri l’economia americana sarebbe entrata di nuovo in recessione tecnica. Secondo il dipartimento del Commercio per il secondo trimestre consecutivo il prodotto interno lordo (Pil) è sceso dello 0,9% a giugno. Nel trimestre precedente ha registrato una contrazione dello 1,6%. Nel dibattito che si sta svolgendo in queste ore, non solo negli Stati Uniti, questi dati potrebbero però non essere la prova inequivocabile di una recessione.

IL NATIONAL Bureau of Economic Research, l’organismo che dichiara in maniera ufficiosa l’inizio di una recessione, ha infatti adottato un diverso metro di giudizio. Dovrebbe passare un anno prima di dichiarare l’esistenza di una recessione. Non sarebbero dunque sufficienti due trimestri consecutivi di crescita negativa per dimostrare che tutta la produzione, e non solo quella nell’edilizia o nella tecnologia, si trovi in una difficoltà grave e prolungata. In più si tratta di analizzare l’interazione complessa di altri indicatori, tra cui c’è anche il reddito, la spesa e la crescita dei posti di lavoro, al momento molto in salute negli Usa a causa di un mercato del lavorio tanto flessibile quanto precario.

ANCHE QUESTA IDEA può essere tuttavia applicata in forme diverse. Lo attesta il giudizio dello stesso ufficio nel caso della pandemia del Covid. Due anni fa la chiusura delle attività produttive e sociali è stata così repentina e drastica da spingerlo a dichiarare l’esistenza di una recessione. In quel caso il crollo drammatico è però durato solo due mesi. Oggi, invece, l’economia statunitense si troverebbe in difficoltà da almeno sei mesi. Ciò dimostra che la definizione di “recessione” è soggetta a variabili politiche e contingenze economiche e di solito è il risultato del senno di poi, alla luce delle revisioni congiunturali.

DI RECESSIONE nel 2023 ha parlato anche il Fondo Monetario Internazionale martedì scorso. Il dibattito su quella americana dimostra che il rimbalzo del Pil dopo il crollo causato dai lockdown anti-covid sta perdendo slancio a causa dell’alta inflazione (9,1% a giugno) e degli aumenti dei tassi di interesse di tre quarti di punto percentuale mercoledì per il secondo mese consecutivo da parte di Jerome Powell, presidente della Federal Reserve (Fed). Altri dati lo confermano: gli investimenti delle imprese e l’edilizia sono calati nel secondo trimestre dopo l’aumento nel primo. La spesa dei consumatori americani, depurata dall’inflazione, sta rallentando anch’essa. Il reddito al netto delle imposte è diminuito dopo l’adeguamento all’inflazione.

QUESTI ANDAMENTI potrebbero rientrare tra gli obiettivi della battaglia anti-inflazione: rallentare l’aumento dei prezzi facendo pagare di più il costo del denaro. Tuttavia la strategia è rischiosa. Può portare direttamente a una o più recessioni. Questa dinamica a spirale si è già data negli Stati Uniti tra il 1980 e il 1981 quando si registrò un’inflazione ancora più alta (quasi il 15%) e diversa da quella di oggi. Quest’ultima è dovuta a impennate speculative dei prezzi delle materie prime, quella di 40 anni fa era dovuta all’eccesso di domanda da surriscaldando salariale o da spesa pubblica. Fu usata dalla banca centrale Usa per sferrare un colpo contro le lotte operaie e sociali e per imporre una politica monetarista. All’inizio del ciclo neoliberale, con Ronald Reagan alla Casa Bianca, la Fed di Paul Volcker alzò i tassi per combattere l’inflazione. Ciò causò la recessione che lo spinse a tornare indietro. L’inflazione rimase alta e ciò comportò un rialzo dei tassi. Il risultato fu un’altra recessione. Ciò portò all’abbandono della politica monetarista di stretta osservanza. Da allora continua la politica del contenimento dei salari e della precarizzazione del lavoro.

LA RECESSIONE indotta dal rialzo dei tassi di interesse è un’arma politica che oggi, in una situazione molto diversa dalla fine degli anni Settanta, può tradursi in un ulteriore contenimento dei salari e dei diritti, oltre che in nuove politiche di contenimento della spesa sociale («austerità») causate dai nuovi limiti imposti al finanziamento per il debito. Questo dilemma è particolarmente evidente in Europa dove la Bce si muove sulla stessa onda della Fed, sia pure con un’inflazione di natura diversa.

È A QUESTO GIOCO che sta giocando anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden che ieri ha detto: «Non sorprende che l’economia stia rallentando – ha detto – Siamo sulla strada giusta e supereremo questa transizione più forti e più sicuri». Anticipare i danni, per evitare di peggiori. Sono in molti a dubitare, e temere, di questa logica.