Visioni

Gli spiriti maligni si cacciano via coi vestiti, amuleti della soglia

Gli spiriti maligni si cacciano via coi vestiti, amuleti della sogliaBunka Gakuen Costume Museum – foto di Manuela De Leonardis

Mostre Visitabile fino al 14 febbraio al Bunka Gakuen Costume Museum, l'esposizione con capi da tutto il mondo

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 1 febbraio 2024

Il tintinnio di campanellini d’argento accompagna il movimento delle caviglie, dei polsi, del volto. Suoni brevi che sprizzano energia, seduttivi messaggi amorosi (è Tagore a suggerirlo nella poesia Quest’autunno è mio quando scrive «i campanellini luccicanti alle caviglie mi tintinnavano nel sangue»), ma anche monili dalla valenza magico-apotropaica che secondo antiche tradizioni popolari – ovunque sul globo terrestre – hanno il potere di tenere a bada gli spiriti maligni. Focalizzare l’attenzione sul labile confine tra corpo umano e mondo esterno attraverso l’uso di specifici capi d’abbigliamento, decorazioni, oggetti ornamentali e portafortuna che hanno la funzione di allontanare demoni invisibili è proprio l’obiettivo della mostra Mienai teki wo fuku de block! (fino al 14 febbraio) – in italiano vuol dire «Respingi gli spiriti maligni: blocca i nemici invisibili con i vestiti!» – organizzata nei due piani del Bunka Gakuen Costume Museum di Tokyo.

L’IDEA di costruire un percorso che affrontasse i diversi aspetti legati alla superstizione che un tempo, frutto di una pressoché inesistente, o comunque scarsa, conoscenza medico-scientifica attribuiva le malattie e la morte a creature volubili, dispettose e maligne (i «jiin» del mondo islamico, ad esempio, come pure gli «youkai», della mitologia giapponese) è nata nella post pandemia di Covid-19, quando ogni certezza è stata ribaltata e gli esseri umani si sono dovuti confrontare con la precarietà degli equilibri nel rapporto con sé stessi, gli altri esseri viventi, l’ambiente e la natura. Dall’Afghanistan all’Indonesia, dal Marocco alla Palestina, dal Gujarat alla Sierra Leone l’impiego di specchietti cuciti su broccati, cotoni e sete, insieme a lustrini, monete, campanelle, perle, perline colorate e conchiglie (associate alla fecondità), come la «tahiya», copricapo tradizionale del Turkmenistan, la «paranja» (variante del burqa) dell’Uzbekistan, il velo «odhani» originario del Sindh (Pakistan), la «ta’jira» usata dalle donne tunisine per coprirsi il capo, dà immediata visibilità al concetto.
Anche la raffigurazione di animali reali e mitologici come serpenti, scorpioni e draghi, sia nella stilizzazione zoomorfa di pattern ornamentali come vediamo sui kimono giapponesi provenienti dalle collezioni del museo, che nella foggia di accessori come scarpette e copricapi a forma di drago realizzati in Cina, conferma la forte connessione con la ritualità. La componente cromatica non è meno importante: per eccellenza è il rosso nelle sue diverse tonalità – colore della vita e della morte – a veicolare il messaggio.

UNO DEI CAPI più raffinati è proprio il rosso «changyi» proveniente dalla Cina, abito tardo imperiale in cui il motivo delle farfalle (simbolo di longevità) è più che mai di buon auspicio. Ma ci vuole una mano femminile, l’«hamsa» (o «khamsa»), che per i musulmani è la Mano di Fatima e per gli ebrei la Mano di Miriam, perché si possa veramente contare sulla protezione: tra gli amuleti e i portafortuna è proprio questo l’oggetto più popolare nel suo esercizio di scudo contro male e malocchio.

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