Gli specchi mediterranei di Giuseppe Modica, tra luce e lutto, realtà e finzione
Giuseppe Modica, «Melanconia e Mediterraneo (visione circolare)», 2017
Alias Domenica

Gli specchi mediterranei di Giuseppe Modica, tra luce e lutto, realtà e finzione

A Roma, Museo Hendrik Christian Andersen «Giuseppe Modica. Rotte mediterranee e visione circolare»
Pubblicato circa un mese faEdizione del 1 settembre 2024

Sono trascorsi tre anni dalla mostra Atelier. Giuseppe Modica 1990-2021 al Museo romano Hendrik Christian Andersen. L’esposizione, di fatto un’antologica del siciliano Modica, aveva come tema lo studio, che per l’artista è al contempo osservatorio privilegiato e immaginifico osservato speciale. Di quelle opere, oggi il Museo ne ha acquisite stabilmente due alla propria collezione: Rifrazioni. Atelier, del 2020, e Melanconia e Mediterraneo. Visione circolare, del 2017. E tale acquisizione è stata il propizio movente per un’altra mostra del siciliano all’Hendrik Andersen, in corso fino al 15 settembre, dal titolo Giuseppe Modica. Rotte mediterranee e visione circolare. La mostra, curata da Maria Giuseppina Di Monte e Gabriele Simongini, espone, oltre ai due lavori suddetti, una ventina di dipinti di recente produzione.

Il tema è cogente, attuale, mediterraneo. Le opere, nella loro enigmaticità, convocano le rotte dei migranti, quelle delle navi da guerra, e il mare, onnipresente in questa scelta, che per Modica è una biforcazione perenne tra ipnotico incanto e orizzonte tragico.

La visione, nelle sue «vedute», è circolare, a trecentosessanta gradi, tra luce e lutto, sogno e incubo, realtà e finzione. Egli è contemporaneamente figurativo e astratto, ed è in fondo il suo approccio metafisico a trasformare un’osservazione quotidiana in qualcosa di visionario. Avendo riflettuto a lungo su Las Meninas di Velázquez, Modica, che ha una formazione di architetto, declina il luogo fisico della creazione pittorica quale prisma ottico per la costruzione delle proprie immagini. Lo specchio, per l’artista, è sì strumento di verifica del corretto funzionamento dell’immagine (espediente antichissimo del fare pittorico), ma diviene anche artificio, oggetto rappresentato, stimolatore dello spazio, utile per moltiplicare piani e prospettive; per far slittare l’interno all’esterno e viceversa; prolungare superfici scorciate; aprire e chiudere continuamente l’orizzonte marino e terrestre; confondere ciò che è davanti con il dietro, in una sorta di gioco a rimpiattino con lo sguardo.

Gli specchi, o meglio tutte le superfici riflettenti – la predilezione di Modica va a quelle incrostate dal tempo – aprono le quattro mura che delimitano lo spazio (in particolare quello siciliano, nel trapanese, davanti al Mediterraneo, dove l’artista, romano di adozione, trascorre vari mesi all’anno). E lo specchio è anche la griglia di macchie, di ossidazioni, di luci, che in parte cancellano la realtà riflessa, e in parte la trasfigurano fino a mostrarla calcinata, desolante. Gli interni, poi, sono dipinti come abbandonati, quando non finiti, privi di serramenti, dove a dominare è un blu variegato e desertico, denso di una luce abbagliante e inquieta. Per acuire questo senso di abbandono delle opere umane al loro ineluttabile destino di corruzione e disfacimento, Modica aggiunge sovente alle sue immagini la sfera e l’ottaedro, prese dalla celebre incisione Melancholia di Dürer. Come nel maestro tedesco, questi corpi geometrici sono vicini al mare, e divengono costanti presenze che, più che citazioni colte, attestano una memoria spirituale.

Le immagini create da Modica, pur se stanziali in un interno, non sono mai immobili. C’è un’agitazione pulviscolare e al contempo una tensione, un sapiente piano sequenza che attende di essere scrutato e decifrato. Una narrazione onnisciente in cui l’osservatore si proietta per scoprirsi poi invisibile nel gioco degli specchi. Perché in questi complessi dispositivi ottici Modica ha estromesso la presenza umana ma ne ha esaltato l’essenza.

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