Pedro Fernández, “San Juan Bautista”, part., 1508-’10, Pasadena (California), The Norton Simon Foundation

La Madonna del pesce di Raffaello – serratissima, muta conversazione giunta all’Escorial sulla metà del Seicento – serve da ineludibile giro di boa per la mostra dedicata al Prado, lungo le limpide sale dell’addizione moreniana, alle presenze spagnole nel Viceregno di Napoli, attive durante il primo quarto del XVI secolo: Otro Renacimiento: artistas españoles en Nápoles a comienzos del Cinquecento, fino al 29 gennaio.
È una scelta ponderata, che evidenzia la chiarezza dell’intero percorso assieme sollevando ampie questioni metodologiche, diversi interrogativi in fatto d’analisi stilistica. La tavola, collocata in San Domenico Maggiore all’inizio degli anni dieci, poté infatti offrire conferme rilevanti, diffondendo un nuovo annuncio per l’ambiente artistico partenopeo. Unico capolavoro del Sanzio direttamente destinato alla città per un contesto devozionale e di committenza d’ampissima risonanza, la pala indicava la giustezza di alcuni suggerimenti sino a quel momento rintracciabili nelle opere di pittori come Pedro Fernández o il Maestro del retablo di Bolea (ancora anonimo, pur a fronte dei molti tentativi d’identificazione); garantiva però allo stesso tempo un assist autorevole per le proposte che andavano accumulandosi in quel mentre e pure in area campana nelle creazioni di Cesare da Sesto o Andrea da Salerno, aggiornati per l’appunto sul linguaggio armonioso della più giovane fra le corone canoniche per la maniera moderna, quella d’origine urbinate, d’educazione umbra e d’affermazione romana.
Sobrietà severa e ordinamento ortogonale, testimone di un’osservazione esigente del dato di natura nel volto (pur dignificato) di San Girolamo, aperto al coup de théâtre quasi astratto della tenda alle spalle della Vergine, un lampo verdognolo striato dall’aria pesante dello scorcio sul fondo, il dipinto, nell’eloquenza d’una metratura generosa, consegnava a Napoli l’immagine del Raffaello anti-grazioso, metafisico si direbbe con lo sguardo educato sui valori plastici novecenteschi.
Anche in questo senso, allora, quel capolavoro serviva a indicare un prima e un dopo, allontanando la parlata municipale dalle tentazioni di un fiamminghismo tenuto vivo, fin nel primo decennio del secolo, dai partiti angioini e aragonesi. Lasciando briglia sciolta alle metafore, verrebbe quasi da credere che negli occhi dei napoletani, il trifornice costruito dal Sanzio (Maria alta porta celeste, Tobiolo e il Padre della Chiesa luci minori ai suoi lati) potesse rimare, per cadenze e ritmo, con gli archi trionfali, non meno imprevisti, costruiti solo pochi anni prima e cioè nel 1506 per celebrare l’accessione del meridione d’Italia fra i possedimenti dei Re spagnoli con l’ingresso trionfale in città di Ferdinando il Cattolico, al fianco della moglie Germaine de Foix, succeduta nel ruolo (se non nella fama) alla defunta Isabella.
Attorno a quest’ingombrante gavitello, non a caso, sembrano aver sterzato le parabole dei pittori e degli scultori giunti a popolare, in eco al rinsaldato centralismo iberico, il panorama della metropoli mediterranea, duplicando un flusso che – non meno intenso – aveva condotto giovani connazionali tra le strade dell’Urbe così come in Toscana, sotto alla cupola del duomo fiorentino o nelle cave operose delle Apuane.
Personalità come i burgalensi Bartolomé Ordóñez e Diego de Siloé, accanto al toledano Pedro Machuca, fecero i conti con una simile svolta, carichi di pregresse esperienze nello Stivale; e se per l’ultimo il dialogo con Raffaello si riallacciava organico dopo un confronto diretto col maestro nei cantieri vaticani, per gli altri due – al lavoro in coppia nella Cappella Caracciolo di Vico, secondo una memoria stupefatta di Pietro Summonte – il paragone andò ad arricchire il già corposo carnet di ricordi italiani che, a precedenti appunti sul Sanzio, associava studi da Donatello e Michelangelo, oltre a impressioni più fresche, desunte dai discendenti di quella stagione di colossi.
Un passaggio a tal punto nodale è raccontato al Prado da pezzi ben scelti e da prestiti fortunati, assommando gioielli in miniatura, come un rilievo di mano di Ordóñez raffigurante nel legno una Deposizione tragica (fra le più impressionanti trouvailles di Riccardo Naldi, specialista del tema e curatore della mostra assieme a Andrea Zezza), ad acquisizioni recenti, inedite per gli occhi del pubblico dei musei internazionali: pensiamo, in particolare, a un San Sebastiano danzante, elastico quanto il tronco marmoreo che, cedevole, gli fa da supporto.
Proprio la cura con cui è concepita questa sezione, anche grazie all’esempio parlante delle tavole machuchiane (dalla Madonna fumettosa della Galleria Borghese all’autografa Vergine del Suffragio), contribuisce a elucidare quale problema pongano, per una storia degli stili, tali prolifiche presenze transitate in terra di Napoli; che apporto garantì insomma la ‘parlata’ iberica – un mondo allogeno di immagini e consuetudini professionali – all’uscita dalla maniera centro-italiana, considerando le date altissime di parabole siffatte rispetto alla parentesi coincidente con quell’atmosfera tersa e impareggiabile. Non a caso la scuola longhiana, la prima a dissodare un problema formale di stratificazione tanto compatta, sottolineava la coesistenza con esperienze solo geograficamente distanti come quelle di Rosso e Pontormo, di Giulio Romano e di Parmigianino; o per ricorrere a coetanei attivi nel Viceregno (giustamente documentati a Madrid) di Polidoro da Caravaggio e di Girolamo Santacroce.
Logorata l’ancor utile etichetta di «manierismo» nelle traversie critiche cui l’ha sottoposta il secolo passato e nella recente, sospettosa diffidenza del mondo anglofono (dopo la magistrale lettura, al riguardo, formulata da John Shearman), è infatti fruttifero ricordare quanto le arricciature formali di questi artisti, le forzature compositive, gli squilibri drammatici e le silhouette fiammanti delle loro figure, l’esasperazione del canone proporzionale e la cesellatura tormentata dei materiali attestino di un «comprimariato» aggiornatissimo (ancora Longhi…) capace di indicare concezioni sofisticate dell’idea stessa di eredità, recitanti cioè con voce autonoma la lezione europea impartita da Michelangelo e Leonardo, oltre che da Raffaello.
Assai opportuna è dunque la sala finale, quella consacrata al rientro in Spagna degli artisti raccontati in esposizione, a partire proprio dal Fernández, di cui si ricostruisce il catalogo in sequenza piuttosto estensiva: perché sulle opere di quest’ambiente si soppesano persistenze e novità degli scambi sostenuti con la realtà campana, tanto artistica quanto intellettuale (la mostra si apre sui ritratti di due dei più illustri umanisti radicatisi a Napoli fra Quattro e Cinquecento, Giovanni Gioviano Pontano e Jacopo Sannazzaro).
Certo anche grazie alla collaborazione di Manuel Arias Martínez – conservatore del Prado giunto da Valladolid appena un anno fa – il percorso può d’altronde terminare sul più felice degli happy end, il fragile San Sebastiano di Alonso Berruguete, must-see del Museo Nacional de Escultura. Parte del puzzle costituito dall’altare maggiore della chiesa di San Benito, databile sulla fine degli anni venti, il martire imberbe – gli occhi cerulei e le guance arrossate – è il manifesto meraviglioso di come il modello italiano – i Prigioni del Buonarroti, i disegni di Leonardo, la grazia giovane del Sanzio – potesse traslarsi dall’altra parte del Mediterraneo, abbia o meno Alonso visto il golfo sotto al Vesuvio, interrogativo tuttavia aperto alla speculazione.